— Lo so — disse Christian, spaventato, ma senza capire effettivamente come sarebbe stata la vita al di fuori di quella casa.
— Ti addestreremo per il tipo di lavoro che ora sei in grado di fare. Non morirai di fame. Non morirai di noia. Ma poiché hai infranto la legge, d'ora in poi una cosa ti è proibita.
— La musica.
— Non tutta la musica. C'è un genere di musica, Christian, che la gente comune, quelli che non sono Ascoltatori, possono avere. La musica della radio e della televisione, e quella dei dischi. Ma la nuova musica, e quella dal vivo... ti sono proibite. Non puoi cantare. Non puoi suonare uno strumento. Non puoi battere il ritmo.
— Perché no?
L'Osservatore scosse la testa. — Il mondo è troppo perfetto, troppo pacifico, troppo felice perché possiamo permettere ad uno spostato che ha infranto la legge di andare in giro a seminare scontento. La gente comune si affida ad un certo genere di musica casuale, e non conosce niente di meglio perché non è portata ad imparare. Ma se tu... lasciamo perdere. È la legge. E se tu creerai ancora musica, Christian, verrai punito severamente. Severamente.
Christian annuì, e quando l'Osservatore gli disse di andare, lui andò, lasciandosi alle spalle la casa, i boschi e lo Strumento. Dapprincipio la prese con tranquillità, come un'inevitabile punizione per la sua infrazione; ma lui non sapeva niente di punizioni o di quello che significasse l'esilio dal suo Strumento.
Dopo cinque ore, gridava e colpiva chiunque tentasse di avvicinarsi a lui, perché le sue dita bruciavano dal desiderio di toccare le chiavi, le leve, le barre e i tasti dello Strumento, e non potevano farlo, e allora capì che prima non era mai stato solo.
Ci vollero sei mesi prima che fosse pronto per la vita normale. E quando lasciò il centro di Riabilitazione (un edificio piccolo, perché veniva usato molto raramente), aveva un aspetto stanco, sembrava molto invecchiato e non sorrideva a nessuno. Divenne autista per una ditta di trasporti, perché i test avevano indicato che questo era il lavoro che meno gli sarebbe pesato, e gli avrebbe ricordato il meno possibile ciò che aveva perso, e in più avrebbe stimolato quelle poche attitudini ed interessi che ancora gli rimanevano.
Consegnava noccioline alle drogherie.
E di notte scoprì i misteri dell'alcool, e l'alcool, le noccioline, il camion ed i suoi sogni erano sufficienti a rendergli la vita accettabile. Non serbava rancore. Avrebbe potuto vivere così per il resto della sua vita, senza amarezza.
Consegnava noccioline fresche e ritirava quelle stantie.
Secondo Movimento
— Con un nome come il mio, — diceva sempre Joe — dovevo aprire un bar con tavola calda. Solo così avrei potuto appendere l'insegna Bar e Tavola Calda da Joe. — E rideva, rideva, perché dopo tutto, Bar e Tavola Calda da Joe era una cosa buffa per quei tempi.
Ma Joe era un ottimo barista e gli Osservatori l'avevano messo nel posto giusto. Non in una grande città, ma in una molto più piccola; una città appena fuori dall'autostrada, dove spesso si fermavano i camionisti; una cittadina non lontana da una grande metropoli, in modo che le cose interessanti fossero a portata di mano e se ne potesse parlare, preoccuparsene, spettegolarci e divertirsi.
Per cui il bar e tavola calda di Joe era un posto simpatico e molto frequentato. Ma non da gente alla moda e neppure da ubriaconi, ma da gente sola e alla mano, in giusta proporzione. — I miei clienti sono come un buon drink, un po' di questo e un po' di quello, per creare un gusto nuovo con un sapore migliore di ciascuno degli ingredienti. — Oh, Joe era un poeta, era un poeta dell'alcool e, come molta gente in quei giorni, lui era solito dire: — Mio padre era avvocato e ai suoi tempi anch'io avrei finito con il fare l'avvocato e non avrei mai saputo quello che perdevo.
Joe aveva ragione. Ed era davvero un ottimo barista e non avrebbe voluto essere in nessun altro posto e così era felice.
Ma una notte arrivò un tizio che non si era mai visto, un uomo con un camion per la consegna delle noccioline, con il nome di una fabbrica di noccioline sull'uniforme. Joe lo notò perché il silenzio circondava quell'uomo come un odore... dovunque andasse la gente lo notava e, benché lo guardassero appena, abbassavano la voce o smettevano del tutto di parlare, diventavano pensosi e guardavano le pareti e lo specchio dietro il bar. L'uomo che consegnava le noccioline era seduto in un angolo, con una bevanda allungata con acqua, il che significava che aveva intenzione di restare a lungo, e non voleva ingerire l'alcool troppo in fretta per non essere costretto ad andarsene troppo presto.
Joe era un acuto osservatore e notò che quell'uomo continuava a fissare l'angolo buio in cui si trovava il pianoforte. Era una vecchia mostruosità scordata, un cimelio dei tempi andati (perché quel bar esisteva da molto tempo), e Joe si domandò perché quell'uomo ne fosse affascinato. Certo, molti dei clienti di Joe se ne erano interessati, ma si erano limitati ad avvicinarsi e toccare i tasti, cercando una melodia senza riuscirci, perché il piano era scordato, e alla fine avevano rinunciato. Ma quest'uomo, invece, sembrava quasi spaventato dal piano e non osava avvicinarsi.
All'ora di chiusura, l'uomo era ancora lì e allora, d'impulso, invece di farlo uscire, Joe abbassò la musica di sottofondo, spense quasi tutte le luci, e poi andò ad alzare il coperchio, scoprendo i tasti grigi.
L'uomo che consegnava noccioline si avvicinò. Chris, c'era scritto sulla targhetta. Si sedette e sfiorò un tasto. Il suono non fu gradevole. Ma l'uomo toccò tutti i tasti ad uno ad uno, poi di nuovo in ordine diverso, e per tutto il tempo Joe lo osservò, domandandosi perché l'uomo provasse una tale emozione.
— Chris — disse Joe.
Chris lo guardò.
— Conosci qualche canzone?
La faccia di Chris assunse una strana espressione.
— Voglio dire, una vecchia canzone, non una di quelle stupide canzonette della radio. «In una piccola città spagnola». Mia madre me la cantava sempre. — E Joe cominciò a cantare: — «In una piccola città spagnola, era una notte come questa. Giocavano le stelle a nascondino, in una notte come questa».
Chris cominciò a suonare mentre la debole voce stonata e baritonale di Joe continuava la canzone. Ma non era un accompagnamento; non era qualcosa che Joe avrebbe chiamato un accompagnamento. Era invece un contrappunto alla melodia, un forte contrasto, e i suoni che uscivano dal piano erano strani e disarmonici e, per Dio, bellissimi. Joe smise di cantare ed ascoltò. Rimase ad ascoltare per due ore e, quando tutto finì, versò con grande rispetto un drink per l'uomo ed un altro per sé e brindò con Chris, l'uomo che consegnava le noccioline, e che era in grado di prendere quel vecchio piano malandato e di farlo cantare sul serio.
Tre sere più tardi Chris ritornò, con un'espressione circospetta e tormentata. Ma questa volta Joe sapeva quello che sarebbe successo (che doveva succedere) ed invece di aspettare l'ora di chiusura, spense la musica con dieci minuti di anticipo. Chris lo guardò implorante. Joe fraintese... andò al piano e sollevò il coperchio della tastiera, sorridendo. Chris si avvicinò rigido allo sgabello e, con una certa riluttanza, si sedette.
— Ehi, Joe — disse uno degli ultimi cinque avventori, — chiudi prima, stasera?
Joe non rispose. Si limitò a guardare mentre Chris cominciava a suonare. Nessun preliminare, questa volta: niente scale e digressioni sui tasti. Solo potenza, e il piano fu suonato come non si era mai inteso che un piano dovesse suonare; le note sbagliate, quelle stonate, si adattarono alla musica tanto da risultare perfette, e sembrava che le dita di Chris, ignorando la restrizione di una scala a dodici toni, suonassero, almeno così parve a Joe, nelle fenditure fra un tasto e l'altro.
Nessuno dei clienti se ne andò prima che Chris avesse finito, un'ora e mezzo più tardi. Tutti accettarono l'ultimo goccio e tornarono a casa scossi da quell'esperienza.
La sera seguente Chris tornò, e anche quella dopo, e quella dopo ancora. Qualunque fosse la battaglia privata che l'aveva tenuto lontano per qualche giorno dopo la prima notte in cui aveva suonato, evidentemente era stata vinta o persa. Non erano affari di Joe. Quello che gli importava era che quando Chris suonava il piano, riusciva a provare sensazioni che la musica non gli aveva mai regalato, ed era questo che lui voleva.
E sembrava che fosse così anche per i clienti. Verso l'ora di chiusura la gente affollava il locale, apparentemente solo per sentire Chris suonare. Joe cominciò ad anticipare sempre più l'inizio della sua esibizione e dovette smettere di offrire da bere dopo il concerto perché la gente era troppa, e la cosa lo avrebbe mandato in rovina.
Continuò così per due lunghi e strani mesi. Il furgone delle consegne si fermava davanti al locale e la gente si faceva da parte per far entrare Chris. Nessuno gli diceva niente, ma tutti aspettavano che cominciasse a suonare. Lui non beveva. Suonava e basta. E tra una canzone e l'altra, le centinaia di persone nel Bar e Tavola Calda da Joe mangiavano e bevevano.
Ma l'allegria era svanita. Le risa, le chiacchiere, l'affiatamento in breve tempo cessarono, e dopo un po' Joe si stancò della musica, e cominciò a desiderare di riavere il suo bar come era stato prima. Accarezzò l'idea di sbarazzarsi del piano, ma i clienti se la sarebbero presa con lui. Pensò di chiedere a Chris di non venire più, ma non aveva il coraggio di parlare a quell'uomo così strano e silenzioso.
E finalmente fece quello che avrebbe dovuto far fin dal principio. Chiamò gli Osservatori.
Arrivarono nel bel mezzo di una esibizione, un Osservatore cieco che teneva un cane al guinzaglio, ed un Osservatore senza orecchi che camminava con passo malfermo, appoggiandosi qua e là per mantenersi in equilibrio. Arrivarono nel mezzo di una canzone e non aspettarono che finisse. Andarono al piano e chiusero dolcemente il coperchio; Chris tolse le dita e guardò il coperchio chiuso.
— Oh, Christian — disse l'uomo che aveva un cane come guida.
— Mi dispiace — rispose Christian, — ho cercato di non farlo.
— Oh, Christian, come posso sopportare di farti ciò che deve essere fatto?
— Lo faccia — disse Christian.
E così l'uomo senza orecchi prese un coltello laser dalla tasca del suo cappotto e tagliò le dita di Christian, proprio nel punto in cui erano unite al palmo. Il laser cauterizzò e sterilitzzò la ferita nel momento stesso in cui recideva, ma qualche goccia di sangue si sparse ugualmente sull'uniforme di Christian. E Christian, con il palmo delle mani e le nocche ormai inutili, si alzò e uscì dal Bar e Tavola Calda di Joe. La gente si spostò ancora per farlo passare ed ascoltò con attenzione le parole dell'Osservatore cieco: — Quello è un uomo che ha infranto la legge, e a cui era stato proibito di essere un Compositore. Lui ha infranto la legge una seconda volta e la legge vuole che lui smetta di sovvertire un sistema che vi rende tutti felici.
Tutti compresero. Ne furono addolorati, e si sentirono a disagio per alcune ore, ma quando furono tornati a casa, la casa-giusta-per-loro, e furono tornati al lavoro, che era quello-giusto-per-loro, la semplice soddisfazione per la loro vita cancellò il momentaneo dolore per Chris. Dopotutto, Chris aveva infranto la legge. Ed era la legge che li manteneva al sicuro e soddisfatti.
Persino Joe. Persino Joe dimenticò presto Chris e la sua musica. Sapeva di aver agito per il meglio. Ma non riuscì ad immaginare perché un uomo come Chris avesse voluto infrangere la legge, e soprattutto quale legge avesse infranto. Non c'era una legge in questo mondo che non fosse intesa a rendere felice la gente... e non c'era alcuna legge che Joe potesse pensare anche solo lontanamente di voler infrangere.
Eppure. Una volta Joe si avvicinò al pianoforte, sollevò il coperchio e suonò tutti i tasti. E quando lo ebbe fatto, appoggiò il capo sulla tastiera e pianse, pianse perché sapeva che quando Chris aveva perso quel piano, aveva perso anche le sue dita, così da non poter mai più suonare... come se Joe avesse perso il suo bar. E se mai Joe avesse dovuto perdere il suo bar, la vita non avrebbe più avuto alcun significato.
Per quel che riguardava Chris, qualcun altro cominciò a frequentare il bar, guidando lo stesso furgone delle consegne, e nessuno vide mai più Chris in quella parte del mondo.
Terzo Movimento
— Oh, che meravigliosa mattina! — cantò uno della squadra addetta alla costruzione della strada, un tipo che aveva visto Oklahoma! per quattro volte nella sua città.
— Culla la mia anima nel grembo di Abramo! — cantò un altro che aveva imparato a cantare quando la sua famiglia era solita riunirsi a suonare la chitarra.
— Guidami, luce gentile, nel buio che mi circonda! — disse uno della squadra che aveva fede.
Ma un altro di essi, l'uomo senza mani che reggeva i segnali che indicavano al traffico di Fermarsi o di Rallentare, ascoltava, senza mai cantare.
— Perché non canti mai? — chiese l'uomo che amava Rodgers e Hammerstein. Lo chiedeva a tutti, prima o poi.
E l'uomo che chiamavano Sugar si limitò a scrollare le spalle: — Non mi va di cantare — diceva, quando diceva qualcosa.
— Perché lo chiamano Sugar? — chiese una volta un nuovo arrivato. — A me non sembra per niente dolce.
E l'uomo che aveva fede rispose: — Le sue iniziali sono C.H. Come lo zucchero. C&H, sai. — E il nuovo arrivato rise. Un gioco di parole stupido, ma quel genere di battute rendevano la vita sopportabile alla squadra addetta alla costruzione della strada.
Non che la vita fosse così dura. Perché anche questi uomini erano stati sottoposti ai test ed avevano il lavoro che più li rendeva felici. Essi erano orgogliosi della pelle bruciata dal sole e della fatica che indolenziva i muscoli, e la strada che si allungava e si assottigliava dietro di loro era la cosa più bella al mondo. E così cantavano tutto il giorno, sapendo che non avrebbero potuto essere più felici di quanto lo erano quel giorno.
Tranne Sugar.
Poi arrivò Guillermo. Un messicano tozzo che parlava con un accento marcato; Guillermo ripeteva a tutti quelli che glielo chiedevano: — Posso anche venire da Sonora, ma il mio cuore è a Milano! — e quando qualcuno gli domandava perché (e anche quando nessuno glielo domandava), lui spiegava: — Io sono un tenore italiano in un corpo messicano — e ne dava la prova cantando ogni nota scritta da Verdi e da Puccini. — Caruso non era nessuno — si vantava Guillermo. — Acoltate questo!
Guillermo aveva dei dischi e cantava insieme ad essi, e quando lavorava con la squadra si univa a qualunque canzone e cantava in coro oppure intonava un assolo ben al di sopra della melodia, con una ruggente voce tenorile che scoperchiava i tetti e riempiva le nuvole. — Io so cantare — diceva Guillermo, e subito gli altri della squadra rispondevano: — Maledettamente vero, Guillermo! Canta ancora!
Ma una sera, Guillermo volle essere sincero e raccontò la verità. — Ah, amici miei, io non sono un cantante.
— Che cosa dici? Certo che lo sei! — fu la risposta unanime.
— Sciocchezze! — gridò Guillermo con tono teatrale. — Se sono davvero un grande cantante, perché non mi avete mai visto registrare delle canzoni? Eh? Questo sarebbe un grande cantante! Sciocchezze! I grandi cantanti sono allevati per essere dei grandi cantanti. Io sono solo un tipo a cui piace cantare, ma che non ha talento! Io sono un tipo a cui piace lavorare nei cantieri stradali con uomini come voi e cantare a squarciagola. Ma all'opera non potrei mai cantare! Mai!
Non lo disse con tristezza. Lo disse con fervore, con sicurezza: — Io appartengo a questo luogo! Posso cantare per voi, che vi divertite ad ascoltarmi! Posso cantare in sintonia con voi quando sento l'armonia nel mio cuore. Ma non pensate che Guillermo sia un grande cantante, perché non lo è!
Era una serata di sincerità ed ognuno spiegò perché era felice nella squadra di costruzione delle strade e perché non avrebbe voluto essere in nessun altro luogo. Tutti, tranne Sugar.
— Avanti, Sugar. Non sei felice qui?
Sugar sorrise. — Sono felice, mi piace qui. Questo è un buon lavoro per me. E mi piace sentirvi cantare.
— E allora perché non canti con noi?
Sugar scosse il capo. — Non sono un cantante.
Ma Guillermo lo guardò con aria saputa. — Non sei un cantante! Ah! Non sai cantare. Un uomo senza mani che rifiuta di cantare non è un uomo che non sa cantare, eh?
— Che cosa diavolo vuoi dire? — chiese l'uomo che amava le canzoni popolari.
— Voglio dire che quest'uomo che chiamate Sugar è un'impostore. Non è un cantante! Guardategli le mani. Non ha più le dita! Chi taglia le dita agli uomini?
La squadra non cercò di indovinare. C'erano molti modi in cui un uomo poteva perdere le dita e nessuno di questi erano affari loro.
— Ha perso le dita perché ha infranto la legge, e gli Osservatori gliele hanno tagliate! Ecco come un uomo perde le dita! Che cosa faceva con le dita, che gli Osservatori volevano che non facesse più? Stava infrangendo la legge, vero?
— Basta — disse Sugar.
— Come vuoi — rispose Guillermo, ma per una volta gli altri non rispettarono l'intimità di Sugar.
— Raccontacelo — chiesero tutti. Sugar uscì dalla stanza.
— Raccontacelo — e Guillermo si decise. Sugar doveva essere stato un Compositore che aveva infranto la legge, e a cui era stato impedito di comporre la musica. Il solo pensiero che un Compositore lavorasse nella loro squadra, addirittura uno che aveva infranto la legge, riempì gli uomini di meraviglia. I Compositori erano rari, ed erano tra gli uomini e le donne più venerati.
— Ma perché le dita?
— Perché — disse Guillermo — deve aver tentato ugualmente di fare musica. E quando si infrange la legge una seconda volta, ti viene tolto il potere di infrangerla una terza. — Guillermo parlava con un tono molto serio, e cosi agli uomini della squadra di costruzione la storia di Sugar suonò maestosa e terribile come un'opera. Si affollarono nella camera di Sugar e lo trovarono con lo sguardo fisso sulla parete.
— Eri un Compositore? — chiese l'uomo che aveva fede.
— È vero, Sugar? — chiese l'uomo che amava Rodgers e Hammerstein.
— Sì — disse Sugar.
— Ma Sugar — disse l'uomo che aveva fede, — Dio non può volere che un uomo smetta di fare musica, anche se ha infranto la legge.
Sugar sorrise. — Nessuno l'ha chiesto a Dio.
— Sugar — disse Guillermo — siamo nove in questa squadra, nove, e non c'è nessun altro per molte miglia qui intorno. Tu ci conosci, Sugar. Giuriamo sulla tomba di nostra madre, tutti noi, che non lo diremo mai ad anima viva. Perché dovremmo? Sei uno di noi! Ma canta, maledizione, canta!
— Non posso — disse Sugar. — Tu non capisci.
— Non è questo che Dio intendeva — disse l'uomo che aveva fede. — Tutti noi facciamo ciò che più ci piace ed ecco che arrivi tu, che ami la musica, e non puoi cantare una sola nota. Canta per noi! Canta con noi! E solo tu, noi e Dio lo sapremo!
Tutti promisero. Tutti pregarono.
E il giorno seguente, quando l'uomo che amava Rodgers e Mammerstein intonò «Love, Look Away», Sugar cominciò a cantare senza parole. Quando l'uomo che aveva fede cantò «God of our Fathers», Sugar cantò sottovoce con lui. E quando l'uomo che amava le canzoni popolari cantò «Swing Low, Sweet Chariot», Sugar si unì a loro con una strana voce acuta, e tutti gli uomini risero, si rallegrarono e diedero il benvenuto alla voce di Sugar nella canzone.
Inevitabilmente Sugar cominciò ad improvvisare. Prima le armonie, naturalmente, strane armonie che stupirono Guillermo, il quale poi si unì a lui con un sorriso, mentre cercava di intuire ciò che Sugar stava facendo con la musica.
E dopo le armonie, Sugar cominciò a cantare le proprie melodie, con parole sue. Erano di natura ripetitiva, con parole semplici e con melodie ancora più semplici. Eppure le ideò secondo strane strutture e ne fece delle canzoni che non si erano mai udite prima, che suonavano sbagliate, ma che pure erano assolutamente perfette. Non ci volle molto perché l'uomo che amava Rodgers e Hammerstein, l'uomo che aveva fede e quello che amava le canzoni popolari imparassero le canzoni di Sugar e le cantassero con gioia o con tristezza, con rabbia o con allegria, mentre lavoravano sulla strada.
Anche Guillermo imparò le canzoni, ed esse mutarono il suo forte registro di tenore al punto che la sua voce, che dopo tutto era stata assolutamente normale, divenne qualcosa di mirabile e di insolito. Un giorno Guillermo disse a Sugar: — Ehi, Sugar, la tua musica è tutta sbagliata, ragazzo. Ma mi piace il modo in cui la sento nel naso! E lo sai, mi piace anche come me la sento in bocca!
Alcune delle canzoni erano inni: — Lasciami affamato, Signore! — cantava Sugar, e la squadra si univa a lui.
Alcune erano canzoni d'amore: — Trovati qualcun altro, — cantava Sugar con rabbia; — Ho sentito la tua voce al mattino, — cantava Sugar teneramente; — È già estate? — cantava triste Sugar, e anche la squadra cantava con lui.
Con il passare dei mesi la squadra cambiò, un uomo se ne andava al mercoledì e un altro prendeva il suo posto al giovedì, a seconda degli operai specializzati che erano richiesti nei vari cantieri. Ogni volta che c'era un nuovo arrivato, Sugar rimaneva zitto, finché questi non avesse dato la sua parola, e così il segreto era al sicuro.
Ciò che alla fine distrusse Sugar fu il semplice fatto che le sue canzoni erano indimenticabili. Gli uomini che se ne andavano, proponevano le canzoni ai componenti della loro nuova squadra; questi ultimi le imparavano e le insegnavano ad altre squadre. Gli uomini insegnavano le canzoni nei bar e nelle strade; la gente imparava in fretta ad amarle; e un giorno un'Osservatore cieco udì le canzoni e comprese immediatamente chi per primo le avesse cantate. La musica era di Christian Haroldsen, perché in quelle melodie, per quanto semplici, soffiava il vento delle foreste del nord e la caduta delle foglie aleggiava oppressiva in ogni nota e... l'Osservatore sospirò. Prese un attrezzo speciale dal suo corredo, salì a bordo di un aereo e volò fino alla città più vicina al luogo dove lavorava una certa squadra. E l'Osservatore cieco prese una macchina della compagnia con autista, raggiunse la strada e dove essa finiva, nel punto in cui stava cominciando ad inghiottire una striscia di terra selvaggia, l'Osservatore cieco uscì dalla macchina e udì cantare. Una voce acuta stava cantando una melodia che avrebbe potuto far piangere anche un uomo senza occhi.
— Christian — disse l'Osservatore e la canzone si interruppe.
— Lei — disse Christian.
— Christian, anche dopo che hai perso le dita?
Gli altri uomini non capirono... tutti gli altri, cioè, tranne Guillermo.
— Osservatore — disse Guillermo. — Osservatore, non ha fatto nulla di male.
L'Osservatore fece un sorriso forzato. — Nessuno ha detto che l'abbia fatto. Ma ha infranto la legge. Tu Guillermo, ti piacerebbe lavorare come servitore nella casa di un uomo ricco? Ti piacerebbe fare l'impiegato di banca?
— Non mi tolga dalla squadra della strada, la prego — disse Guillermo.
— È la legge che indica dove gli uomini saranno felici. Ma Christian Haroldsen ha infranto la legge. E se ne è andato in giro facendo sentire alla gente musica che non avrebbe mai dovuto ascoltare.
Guillermo capì di aver perso la battaglia ancor prima di cominciare, ma non riuscì a trattenersi. — Non gli faccia del male, amico. Io ero nato per ascoltare la sua musica. Lo giuro su Dio, mi ha reso più felice.
L'Osservatore scosse tristemente il capo. — Sii sincero, Guillermo. Tu sei un uomo sincero. La sua musica ti ha reso infelice, vero? Tu hai tutto ciò che puoi desiderare dalla vita, eppure la sua musica ti rende triste. Ogni volta, triste.
Guillermo cercò di ribattere, ma era sincero, guardò in fondo al suo cuore e seppe che quella musica era piena di dolore. Anche le canzoni allegre contenevano un lamento; anche quelle rabbiose piangevano; persino quelle d'amore sembravano dire che tutto muore e che la contentezza è la cosa più passeggera. Guillermo guardò in fondo al suo cuore e tutta la musica di Sugar ricambiò il suo sguardo e Guillermo pianse.
— Solo non gli faccia del male, la prego — mormorò Guillermo, tra le lacrime.
— Non gliene farò — disse l'Osservatore cieco. Poi camminò verso Christian che se ne stava passivamente in attesa e mise l'attrezzo speciale davanti alla gola di Christian. Christian boccheggiò.
— No — disse Christian, ma la parola si formò solo con la lingua e con le labbra. Non uscì alcun suono. Solo un sibilo d'aria. — No.
— Sì — disse l'Osservatore.
La squadra guardò in silenzio l'Osservatore che portava via Christian. Non cantarono per giorni. Ma poi Guillermo dimenticò il suo dolore e un giorno cantò un'aria dalla Bohéme, e da allora le canzoni ricominciarono. Ogni tanto cantavano una delle canzoni di Sugar, perché le canzoni non potevano venir dimenticate.
In città, l'Osservatore cieco diede a Christian un pezzo di carta ed una matita, e Christian immediatamente prese la matita nelle pieghe del palmo della mano e scrisse: — Che cosa farò ora?
L'Osservatore cieco rise. — Abbiamo un lavoro per te! Oh, Christian, se abbiamo un lavoro per te! — Il cane abbaiò forte sentendo il suo padrone ridere.
Applauso
In tutto il mondo c'erano solo due dozzine di Osservatori. Erano uomini riservati, che sorvegliavano un sistema che necessitava di poca sorveglianza perché in effetti rendeva felici quasi tutti. Era un buon sistema, ma come la macchina più perfetta, qua e là si rompeva. Qua e là qualcuno agiva da folle danneggiando se stesso, e per proteggere tutti ed anche quella persona, un Osservatore doveva accorgersi della follia ed andare a porvi rimedio.
Per molti anni il migliore degli Osservatori fu un uomo senza dita e senza voce. Arrivava in silenzio, vestendo un uniforme che lo designava con il solo nome di cui avesse bisogno: Autorità. E lui trovava il modo più facile, più gentile, eppure il più efficace, per risolvere i problemi, curare la follia e preservare il sistema che rendeva il mondo, per la prima volta nella storia, un luogo bellissimo in cui vivere. Praticamente per tutti.
Perché vi erano ancora alcune persone, una o due ogni anno, che cadevano vittime di un circolo vizioso creato da loro stessi, persone che non riuscivano ad adattarsi al sistema né a danneggiarlo, persone che continuavano a violare la legge anche se sapevano che questo le avrebbe distrutte.
Alla fine, quando le gentili mutilazioni e privazioni non riuscivano a curare la loro follia e a reintegrarli nel sistema, veniva loro data un'uniforme ed anch'essi andavano fuori. Ad Osservare.
Le chiavi del potere erano affidate alle mani di coloro che più avevano ragione di odiare il sistema che erano chiamati a conservare. Erano infelici?
— Sì — rispondeva Christian nei momenti in cui osava porsi questa domanda.
Nel dolore compiva il suo dovere. Nel dolore invecchiava. E alla fine gli altri Osservatori, che onoravano l'uomo silenzioso (perché sapevano che una volta aveva cantato canzoni magnifiche), gli dissero che era libero. — Il tuo servizio è finito — gli disse l'Osservatore senza gambe, e sorrise.
Christian alzò un sopracciglio come per dire: — E allora?
— Allora puoi andare.
Christian se ne andò. Si tolse l'uniforme, ma poiché non gli mancava né il tempo né il danaro, poche porte rimasero chiuse per lui. Andò dove aveva vissuto nelle sue vite precedenti. Una strada tra le montagne. Una città dove una volta aveva conosciuto ogni ingresso di servizio di drogherie, caffè e ristoranti. E infine andò in un luogo nei boschi dove una casa stava cadendo e pezzi perché nessuno l'aveva più abitata per quarant'anni.
Christian era vecchio. Il fragore del tuono gli suggerì solo che stava per piovere. Tutte le vecchie canzoni. Tutte le vecchie canzoni, pianse dentro di sé, ma solo perché non riusciva a ricordarsele e non perché la sua vita fosse stata particolarmente triste.
Mentre era seduto in un caffè nella città vicina per ripararsi dalla pioggia, sentì quattro ragazzi che strimpellavano la chitarra cantando una canzone che lui conosceva. Era una canzone che aveva inventato mentre l'asfalto colava in un torrido giorno d'estate. I ragazzi non erano musicisti, e certo non Compositori, ma cantavano con il cuore ed anche se le parole erano allegre, la canzone riusciva a commuovere tutti quelli che la ascoltavano.
Christian scrisse sul taccuino che portava sempre con sé e mostrò ai ragazzi la domanda: — Da dove viene quella canzone?
— È una canzone di Sugar — disse il capo del gruppo. — È una canzone composta da Sugar.
Christian alzò un sopracciglio, facendo un gesto noncurante.
— Sugar era un tizio che lavorava in una squadra che costruiva strade, e componeva canzoni. Ma è morto, ora.
— Sono le canzoni migliori del mondo — disse un altro ragazzo, e tutti annuirono.
Christian sorrise. Poi scrisse (ed i ragazzi aspettavano con impazienza che il vecchio se ne andasse); — Non siete felici? Perché cantate canzoni tristi?
I ragazzi non seppero cosa rispondere. Ma il capo saltò su e disse: — Certo che sono felice. Ho un buon lavoro, una ragazza che mi piace, e non potrei chiedere di più. Ho la mia chitarra. Ho le mie canzoni. I miei amici.
E un altro ragazzo disse: — Queste canzoni non sono tristi, signore. Certo, fanno piangere la gente, ma non sono tristi.
— Sì — disse un altro. — È solo che sono state scritte da un uomo che sapeva.
Christian scribacchiò: — Sapeva cosa?
— Sapeva. Sapeva e basta. Sapeva tutto.
E poi i ragazzi ritornarono alle loro chitarre e alle loro voci giovani e inesperte. Christian si avviò verso la porta perché aveva smesso di piovere, e perché sapeva quando era ora di abbandonare la scena. Si voltò e fece un lieve inchino verso i cantanti. Loro non se ne accorsero, ma le loro voci erano tutto l'applauso di cui aveva bisogno. Si allontanò dall'ovazione e uscì all'aperto, dove le foglie stavano appena cambiando colore e dove presto, con un piccolo suono inudibile, si sarebbero staccate e poi sarebbero cadute a terra.
Per un attimo credette di aver udito se stesso cantare. Ma era solo un'ultima folata di vento, che si infilava tra i cavi al di sopra della strada. Era una canzone carica di frenesia, e Christian pensò di aver riconosciuto la propria voce.
NONNINA NON FA LA CALZA
Granny Won't Knit
di Theodore Sturgeon
Galaxy, maggio 1954
Mai troppo rimpianto, Theodore Sturgeon era uno dei pochi autori di cui la sf potesse essere davvero orgogliosa: scrittore maturo, intelligente, letterariamente raffinato, Sturgeon riusciva a trasportare nelle sue storie tutta la sua possente sensibilità interiore e a coinvolgere emotivamente il lettore con una intensità unica. Questa deliziosa «novella» è un tipico esempio delle sue enormi qualità: una piccola gemma finalmente ripescata dall'oblio e dai tempi d'oro di «Galaxy».
I
Agli occhi di Roan ci fu uno sfarfallio di tenebra, quasi troppo breve per essere notato, e subito arrivò a destinazione. Scese dal transplat e fece tre passi incerti prima di capire, sbalordito, di non essersi affatto materializzato negli uffici della J. & D. Walsh, bensì su una piccola piattaforma da cortile racchiusa fra pesanti e primitivi tendaggi. Nell'aria, troppo calda, stagnava un odore intenso e poco gradevole.
Preoccupato si guardò attorno in cerca del quadro-comandi su cui riformare il numero dell'ufficio di suo padre. Non era dove avrebbe dovuto essere, in un angolo del cortile. Petali! Era già in ritardo, e arrivare in ritardo significava guai.
— Desidera? — canterellò un'affettata voce femminile, bassa e melodiosa.
Roan si voltò di scatto, battendo dolorosamente una caviglia sullo spigolo del transplat. Saltellò di lato su un piede solo. Non s'era mai sentito così tormentosamente goffo in tutti i suoi trent'anni di vita.
— Mi scusi — barbugliò. — Devo aver composto il numero sbagliato. — Localizzò il punto da cui usciva la voce: una porta sul lato opposto. In alto aveva uno spioncino aperto, e in quella piccola cornice era inquadrato un volto...
Il volto!
Se vi capita di sognare volti femminili in genere li sognate dopo averli visti, non prima! Quel pensiero lo stordì un attimo, gli fece sbattere le palpebre, e il suo sguardo s'incantò su un'aureola di capelli d'oro e due verdi occhi ridenti.
— ... uno sbaglio, capisce — ripeté, a disagio. — Voglio dire, il numero.
— Forse lo era e forse no — disse lei, in toni che avrebbero fatto invidia alle note di un'arpa. Apparve una sua mano, che spinse di lato l'oro dei capelli.
Una mano nuda.
Ansimando per lo shock di quell'esibizione licenziosa lui si affrettò a distogliere lo sguardo. — Bisogna che usi... uh... posso usare il suo transplat?
— È meglio che andare a piedi — disse lei, e sorrise. — Lo troverà laggiù. — Dallo spioncino sbucò fuori un indice, e dietro di esso un intero braccio nudo. Il braccio si ritrasse, quindi ci fu il rumore di un catenaccio tirato indietro. — Vengo a mostrarle dove.
— No! — Com'era possibile che quella ragazza dimenticasse di... di non essere decentemente vestita? — Lo cerco io. — Annaspò contro i tendaggi, li spostò di qua e di là, e infine dietro uno di essi trovò il quadro-comandi. Volgendole con fermezza la schiena disse: — Non ho spiccioli in tasca.
— Deve proprio andare?
— Sì!
Lei rise. — Bene, comunque sia, lei è mio ospite.
— Grazie — annuì lui. — Le farò... uh... avere — disse, premendo i numeri con attenzione per non sbagliare un'altra volta, — appena possibile... i suoi... tre crediti.
Sempre evitando di guardarla salì sul transplat. Lei era ancora nel suo cubicolo, grazie alle Energie. Poi si rese conto di non avere la minima idea di quale fosse il numero che aveva composto per sbaglio; benché l'avesse intravisto sul quadro-comandi, era stato troppo distratto per leggerlo.
— Ah, non ho il suo numero! — ansimò, ma il solito tremolio di oscurità assoluta era apparso e svanito, e lui si trovava in piedi sul transplat degli uffici della J. & D. Walsh, con una mano stupidamente protesa verso Nubile Corson, la più anziana delle segretarie, quella che si acconciava i capelli come una ragazzina.
— Il mio numero? — gli fece eco Nubile Corson. Stupefatta, ridacchiò: — Oh, via, Celibe Walsh! — Sotto il mantello dell'intimità le sue mani guantate si mossero in fretta. Quando lui passò accanto alla scrivania gli cacciò fra le dita una strisciolina di carta. — Ne ho ottenuto uno facilissimo da tenersi a mente — sussurrò con un sorrisetto.
Senza una parola lui si diresse alla porta del suo ufficio. Attese che scivolasse di lato, entrò, e mentre il battente si chiudeva alle sue spalle scaraventò il foglietto nell'inceneritore. — Corolle! — imprecò, gettandosi a sedere in poltrona.
— Roan, vieni immediatamente qui! — latrò l'interfono sopra di lui.
— Sì, Privato! — fu l'ansito di Roan.
Per qualche secondo restò seduto, inalando profondi respiri, quasi che l'ossigeno extra avesse potuto dargli qualcosa di meglio da dire. Poi si alzò e andò a una porta laterale, che si aprì davanti a lui. Suo padre, assiso come su un trono dietro l'ampia scrivania, lo stava fissando accigliato. Era vestito esattamente come lui, esattamente come Nubile Hall, e Nubile Corson, e Madre Walsh e chiunque altro al mondo eccetto... ma non doveva pensare a lei adesso, qualunque cosa fosse accaduta.
Privato Walsh lasciò pesare il suo cipiglio, barba e tutto, su Roan, poi ritrasse le mani guantate sotto il mantello dell'intimità e se le studiò pensosamente. Benché non potesse vederle, Roan sapeva che erano tenute con le dita decorosamente unite e rigide, il più possibile simili a oggetti privi di vita.
— Sono molto dispiaciuto — disse Privato Walsh.
Che altro succede, adesso? si chiese lugubremente Roan.
— Negli affari c'è qualcosa di più che il semplice profitto — affermò il barbuto individuo. — Nel nostro ramo c'è di più che il semplice trasferimento di persone e merci. Non è una grande industria, ma una chiave di volta non è necessariamente una grande pietra. La piattaforma per il trasferimento — declamò, usando la denominazione ufficiale, come se vedesse il transplat vestito di mitra e mantello papale, — è la chiave di volta della nostra società, e questa ditta è la chiave di volta dell'industria dei transplat. Le nostre responsabilità sono grandi. Le tue responsabilità sono grandi. Tu occupi una posizione che richiede un'apparenza esteriore costantemente superiore a ogni critica. Integrità, ragazzo, capacità di essere all'altezza della fiducia altrui... rispetto per l'intimità. E soprattutto onore e decoro.
Ormai abituato a sentirselo ripetere, Roan esibì un atteggiamento doverosamente pentito.
— Uno dei primi attributi di un gentiluomo (e un onesto uomo d'affari dev'essere tale, in quanto sono molte le doti che gli si richiedono) uno dei modi di capire se fra noi vi è un gentiluomo, dicevo, è di dare risposta alla domanda: è puntuale? — Privato Walsh si piegò in avanti così bruscamente che la sua barba sfiorò la scrivania, e Roan ebbe un moto istintivo all'indietro. — Questa mattina tu sei giunto in ritardo!
Roan cedette istericamente all'impulso di giustificarsi. — Ecco, vede, per sbaglio sono finito nell'abitazione di una signora e... ho dovuto spiegarmi con lei, e poiché aveva le mani nude, io... — Ma subito l'educazione ebbe la meglio anche sull'isterismo, e la sua mente s'affrettò a tornare sul binario giusto.
— Privato — ammise sconfortato, — ero già in ritardo. Posso darle una spiegazione, ma... — si raddrizzò, cercando un tono più fermo. — Ma non intendo addurre scuse per scagionarmi. — Fece un passo indietro. — Ho il suo permesso per ritirarmi a meditare nel mio ufficio?
— Niente affatto. Qual è questa spiegazione?
Avrebbe fatto meglio a tirarne fuori una convincente, si disse Roan. Si poggiò una mano sul petto. Sapeva che quella posa, oltre al capo chino, conferiva un certo tono al suo atteggiamento pentito.
— Questa mattina mi sono svegliato con un'idea meritoria — disse. — Ho trovato una procedura per economizzare.
— Se non l'ho già trovata anch'io — tuonò la barba, — deve essere davvero meritoria.
— Ogni carico di merci che trasferiamo con il transplat è accompagnato da un inserviente. Costui non fa altro che tenere in mano la bolla d'accompagnamento, e controllare la ricevuta dell'impiegato al luogo di arrivo. Il mio progetto consiste nell'eliminare l'inserviente.
— E ti sei svegliato con questo lampo d'ingegno?
— Sì, Privato — mentì Roan, compiaciuto delle proprie risorse mentali.
— E hai fatto tardi, indugiando a elaborare quest'idea?
— Sì, Privato.
— Visto che saresti giunto in ritardo anche impigrendoti sotto le coltri — osservò acidamente il vecchio, — avresti fatto meglio a restare a letto. Così avresti sprecato solo il tuo tempo... e non anche il mio.
Roan lo conosceva abbastanza da tenere la bocca chiusa.
— Nella storia del trasferimento di materiali — disse suo padre, — nove spedizioni sono andate perdute. Le conseguenze sono state sconvolgenti. Voglio che tu legga la cronaca di questi nove casi e studi le registrazioni visive. In uno di questi casi (l'arrivo di centoventi metri cubi di lingotti di ferro nel locale di un'abitazione privata del volume di ottantaquattro metri cubi) il risarcimento danni è stato spettacoloso quanto il risultato stesso.
— Ma questo oggi non può accadere!
— No, non può — ammise Privato Walsh. — Non da quando c'è il controllo automatico del volume, che blocca l'arrivo di un carico su una piattaforma inadatta a contenerlo. Ma possono sempre accadere imprevisti spaventosi, come nel caso dei Padri della Castità, quando duecento femmine dirette a un'assemblea di lavoratrici furono mandate per errore nel cortile della clausura di quel monastero. Il risarcimento danni (a parte quello per violazione d'intimità) fu aggravato dalla situazione particolare, e moltiplicato per il numero dei Padri e dei Novizi. Ottocentoquattordici parti lese, se ricordo bene. E io ricordo bene.
«Ora, la presenza di un accompagnatore addestrato avrebbe ridotto la presenza di quelle femmine nel cortile di clausura a poche decine di secondi, con conseguente riduzione dei danni. Il carico sarebbe tornato al luogo di partenza quasi immediatamente. Finché cose simili potranno ripetersi, pagare l'accompagnatore è molto più economico che stipulare una polizza assicurativa per eventuali danni. — Fece una pausa, ironicamente. — Hai altre brillanti idee da suggerire?
— Se non le spiace, Privato — disse compitamente Roan, — ho una certa conoscenza di questi argomenti. Ciò che suggerisco è questo: che dopo aver preparato il carico sulla piattaforma l'inserviente componga il numero, ma il trasferimento non avvenga finché al quadro-comandi non giunga un impulso di ritorno dal punto d'arrivo (via radio, o video) il quale confermi il numero facendolo apparire sul quadro sotto quello appena composto. Solo allora l'inserviente premerà il tasto per la spedizione. Questo ci risparmierebbe di far accompagnare il carico, o di mandare un altro inserviente ad avvisare il luogo d'arrivo pochi minuti prima.
Nell'ufficio aleggiò un pensoso silenzio. — Vedi — continuò Roan per sfruttare al massimo il suo vantaggio, — se l'ordine definitivo di trasmissione parte dal ricevitore stesso, è difficile immaginare come il carico potrebbe finire altrove.
Il silenzio si prolungò, e dalla barba emerse infine un suono che il vecchio avrebbe potuto produrre trovandosi fra i denti il nocciolo di un'oliva. — Questo implica una modifica nei quadri di comando. L'aggiunta di un'apparecchiatura trasmittente.
— La maggior parte delle nostre spedizioni è effettuata con una clientela abituale. Ogni cliente andrebbe fornito di quest'apparecchiatura.
Silenzio.
Roan azzardò, in un sussurro: — Un servizio esclusivo della J. & D. Walsh.
— Bene! — disse Privato Walsh. Quel grugnito fu una delle parole più difficili a capirsi che mai Roan gli avesse udito pronunciare. — Che questo sia o non sia un suggerimento, che sia o non sia attuabile, direi che implica da parte mia una decisione di altro tipo, per intanto. Cosa ti gratificherebbe di più (voglio dire cosa ti sembra più estetico) J. & D. Walsh & Figlio, oppure J.D. & R. Walsh?
Con le mani unite dietro la schiena Roan sentì un'unghia penetrargli nel palmo attraverso il guanto. Sperò che la sua voce non tremasse, quando rispose: — Non posso presumere di esprimere un'opinione del genere a chi è molto più esperto in... — e qui la sua voce si spezzò.
Osò gettare uno sguardo al padre e, stranamente, per la prima volta riflette che se talora al vecchio era capitato di sorridere lui non era mai stato capace di accorgersene, attraverso la barba. L'imperscrutabilità da essa data, tuttavia, era un altro dei privilegi spettanti ad ogni capofamiglia.
Per un momento pensò che suo padre stava per dirgli qualcosa di piacevole, ma quell'impossibilità restò nel limbo delle cose impossibili, e il vecchio si limitò ad accennargli alla porta. — Questa sera sei atteso da mia Madre — borbottò. — Sii puntuale con lei, almeno.
Questa era una notizia seccante, ma il vecchio non smise di punzecchiarlo e continuò: — Poltrire a letto riflettendo sui problemi della ditta, anche se ne emergono idee di valore dubbio, rivela devozione al proprio lavoro. Arrivare in ritardo rivela il contrario. Un Privato... — e raddrizzò le spalle, — deve essere puntuale e creativo.
Road abbassò ancora doverosamente la testa e raggiunse la porta, che si aprì per lasciarlo passare. Quando sentì la serratura richiudersi dietro di lui Roan fece un balzo per aria, sprigionando un urlo silenzioso da ogni cellula del suo corpo. Socio della ditta! Finalmente lui cambierà questa nostra vecchia, odiosa, bellissima sigla! Batté in silenzio le mani guantate, stringendosele con forza. Oh, Roan, figlio d'un petalo, come ci sei riuscito? Perché la tua testa balzana è così brillante solo quando devi levarti da un guaio? Oh, sei proprio un...
S'interruppe, mentre la bocca gli si apriva scioccamente e i suoi occhi si sbarravano di colpo. Sopra la scrivania, e sempre nella stessa posa, sedeva la visione dai capelli d'oro che lui aveva sognato quella notte e il cui numero aveva composto per errore quel mattino.
Era vestita — se qualcuno avrebbe potuto definirla vestita — con un abito che le lasciava scoperto il collo e ricadeva morbidamente attorno al corpo, del tutto diverso dal liscio e rigidissimo cono-su-cono senza pieghe che costituiva l'abbigliamento convenzionale. Le sue braccia erano completamente nude e così anche (incredibile ma vero) i piedi, che emergevano da sotto quell'orlo fluttuante. Sedeva con entrambe le mani intrecciate attorno a un ginocchio, e lo osservava con gravità. D'un tratto sorrise, il suo corpo fu trasparente per un secondo... e poi svanì.
Roan vedeva esseri umani e carichi di merci svanire ogni giorno... ma mai a sessanta metri di distanza dalla più vicina piattaforma di trasferimento! E mai aveva visto qualcuno indecentemente avvolto con una stoffa di quel genere, che aderiva alle membra invece di starne discosta con il necessario decoro!
Sentì d'avere il volto surriscaldato, e s'accorse che stava trattenendo il respiro da... da quanto? D'un tratto avvertì un forte dolore alle gambe, e capì che a un certo punto, durante quella straordinaria esperienza, era caduto in ginocchio sul tappeto.
Piuttosto scosso si alzò in piedi, e per calmarsi si concentrò nel compito di riassettare la linea dei pantaloni. Erano lisci e rigidi, perfettamente cilindrici, di tessuto ben diverso da quello rosa e sottile che delineava i fianchi di lei. E quei piedini avevano cinque dita, anche. Prima d'allora non gli era mai capitato di domandarsi se le donne avevano le dita dei piedi? Certamente no! E tuttavia le avevano. Lei le aveva.
Per la reazione emotiva fu costretto a sedersi in poltrona.
Il suo primo pensiero veramente lucido fu quello di chiedersi che aspetto avrebbe avuto quella visione con indosso un abito decoroso, e scoprì di non riuscire a immaginarselo. Scoprì anche, subito dopo, che non voleva affatto immaginarlo, e ammetterlo con se stesso lo riempì di vergogna. Oh, petali! gemette ogni oncia di buona creanza in lui, il Privato aveva ragione nel tenersi tanto a lungo l'esclusiva proprietà della ditta. E ha sbagliato adesso a darmi la sua fiducia! Cosa c'è nella mia testa? ansimò in silenzio. Che orribile creatura sono io?
II
Privato Whelan Quinn
Quinn & Glass
Livello 4
Matrice 124-10-9783
Onorevole Privato:
con riferimento alla Sua ordinazione del 17 corrente, siamo spiacenti di doverLa informare che le nostre scorte di griglie per radiatore bionde e dagli occhi verdi sono, per il momento, insufficienti a completare la massa minima per una spedizione transplat alla Sua ditta. Tuttavia, sapendo che Lei usa una considerevole quantità di pannelli prefabbricati, siamo pronti a completare il peso con lastre standard, sempreché Lei desideri sposarle. Abbiamo il materiale nei colori bianco, dorato come quei capelli di sogno, e avorio. La preghiamo d'informarci appena possibile se un medico può essere di qualche aiuto.
Privatamente Suo,
Roan rilesse distrattamente la lettera che aveva appena composto sullo schermo del video del suo telefax, con un dito sospeso a un millimetro dal tasto SPEDIRE della posta automatica. I suoi occhi erano ancora ottusamente fissi sulle griglie bionde e dagli occhi verdi, quando il ronzio dell'interfono lo fece sussultare.
— Sì?
La voce che ne uscì era quella chiocciante della Nubile Corson: — C'è una chiamata della Greenbaum Grofast, Celibe Walsh. Riguarda una lettera trasmessa alle ore 10,10 dalla sua matrice. Vogliono sapere in cosa consiste esattamente l'articolo undici sulla lista delle ordinazioni.
— Quale articolo undici?
— Qui io leggo «dita dei piedi sorridenti».
— Qualunque cosa significhi c'è un errore. Qual è il prezzo di quell'articolo?
— Qui non compare.
— Allora non importa. Dica loro di cancellare la riga, e di ritenere confermati i primi dieci articoli. Avrebbe dovuto pensarci lei.
— Io sono così occupaa-a-a-ta! — miagolò lei, in tono supplichevole-adorante così disgustoso che se lui l'avesse avuta davanti a sé l'avrebbe presa a calci nel retrobottega... no, nel sedere.
— Ascolti! — la fermò lui, — stampi una copia di tutte le lettere che ho spedito questa mattina e me le porti qui.
Roan emise un grugnito. L'adrenalina che la rabbia gli aveva fatto entrare in circolazione schiarì la sua mente, e rileggendo la lettera sullo schermo deglutì un groppo di saliva. Con mani tremanti apportò le correzioni. Non faticava a immaginare l'espressione con cui il vecchio Quinn avrebbe letto quel «Sempreché Lei desideri sposarle». E non faticava a immaginare neppure il modo in cui si sarebbe contratta la barba di suo padre, se per caso Quinn l'avesse chiamato per chiedere chiarimenti.
La Nubile Corson entrò con un pacchetto di fotocopie. — Qui ce n'è una che dice...
— Le dia a me! Grazie, Nubile — la interruppe lui.
— Oh, di niente. — Sulla porta la donna si volse e disse, con sollecita comprensione: — Celibe Walsh, lei mi sembra... voglio dire, se c'è qualcosa che posso...
— Grazie, Nubile! — ruggì lui.
Lei deglutì. — Basta che lei me lo dica. — Poi i suoi occhi si spalancarono mentre lo fissava. Quella parte staccata della mente di Roan che non poteva fare a meno di chiedersi cose simili si chiese che faccia avesse in quel momento. Qualunque fosse, bastò a spedirla fuori come se la stanza fosse stata un cannone e lei la palla.
Roan lesse la prima delle copie: ... vostra domanda circa il numero dei sostegni contenuti in ogni imballaggio. Il nostro impiegato provvederà, purché io riesca a scoprire il numero della ragazza bionda. Poi c'era un altro riferimento all'oro, stavolta come cornice dorata intorno al volto, e un paragrafo abbastanza sconcertante circa la spedizione di un generatore con due piedini deliziosi.
Procedendo nella lettura delle copie fu però sollevato scoprendo che le sue preoccupazioni personali avevano avuto un riflesso soltanto sulle ultime quattro lettere. Scrisse di nuovo ciascuna di esse, accuratamente corretta, aggiunse una breve nota di scuse senza dare però troppe spiegazioni, e le spedì al destinatario. Poi distrusse le copie scorrette.
Quando poté rilassarsi contro lo schienale della poltrona era ancora rosso in volto e pieno d'imbarazzo. Già mezzogiorno! Grazie all'Energia almeno per questo.
Soltanto allora vide il biglietto dietro l'orologio della scrivania, nell'angolo dov'era seduta la visione. In calligrafia elegante e precisa recava il numero di un transplat... nient'altro.
Corpo di mille petali!
S'affrettò a metterselo in tasca.
Mentre usciva disse a Nubile Corson, senza voltarsi a guardarla: — Oggi pomeriggio non rientro. Ho da lavorare fuori.
— Oh, ma lei non ha sull'agenda nessun...
Prima che la donna potesse dire altro si girò di scatto a fissarla. Lei deglutì, così vistosamente che Roan ebbe la folle convinzione che si fosse inghiottita la lingua. Salì sulla piattaforma, compose un numero sul quadro e lasciò gli uffici.
Per qualche istante rimase immobile, in piedi sotto il cielo - o meglio sotto l'immensa volta di metalglas - che soffondeva luce perlacea sul Grosvenor Center. C'erano negozi, un ristorante, una biblioteca, e di fronte a lui un teatro: una vasta struttura ad alveare fitta di celle singole, ciascuna con il suo apparato video. Stavano programmando qualcosa chiamato Le glorie della Stasi. Ricordava la recensione: due ore di prosa dedicata a fantasie poetiche sui pomeriggi eterni, sulle rose che mai sfioriscono, e sulla perpetua giovinezza. Forse l'avrebbe vista, pensò. Dopotutto non era di questo che aveva bisogno: veder riaffermata l'immutabilità delle cose, e sapere qual era il suo posto in quell'eterna società?
Quant'era rassicurante il Grosvenor Center! La gente si spostava da un luogo all'altro, mai affrettandosi, mai con andatura scomposta, ciascuno consapevole del posto in cui stava andando e del posto da cui proveniva. Tutti con l'identico vestito, con l'identico passo, i piedi rettangolari sicuri e rigidi, le membra tubolari in meccanica oscillazione, gli abiti cono-su-cono che non si piegavano, non si sgualcivano, non aderivano in nessun punto al corpo...
Scese dalla piattaforma.
... e celate sotto il mantello dell'intimità le loro mani erano piatte e tese, inutilizzate salvo in caso di necessità - così come gli uccelli usavano e ripiegavano le ali - e nascoste allorché dovevano lavorare, così come venivano ricoperti i meccanismi mobili. E dovunque il suo sguardo poteva spingersi questa gente sana era corretta quanto identificabile. Non ci si trovava mai nel dubbio perché un uomo accuratamente sbarbato era un Celibe come lui, e i lunghi capelli sciolti indicavano una Nubile, e quelli annodati dietro la nuca una Madre, mentre gli uomini barbati erano ovviamente Privati.
Nobile titolo, Privato... costante memento dei grandi ideali dell'Intimità, della privata riservatezza, in cui c'era l'essenza dell'ordine universale. Il termine era nato, come si insegnava, fra la stessa gente che negli anni della barbarie aveva formato una grande folla: eserciti di persone pacificamente organizzate, le quali avevano reagito al caos esterno con l'ideale ritiro nel Privato. Coraggiosi a quel tempo e magnifici oggi. Si volse alle file dei transplat e sentì un impeto di orgoglio. Qualcuno aveva usato il termine «chiavi di volta». Una buona definizione. Perché i transplat coprivano il pianeta come un'immensa rete, standardizzando il linguaggio, i vestiti, le usanze e le ambizioni. Ogni punto della Terra si trovava appena a pochi passi e ad una frazione di secondo da tutti gli altri, ed ogni risorsa era vicina alle mani guantate che la cercavano. Un tempo lui aveva nutrito una certa curiosità circa la conformazione dei luoghi e le distanze geografiche. Presto se n'era disinteressato, come di una cosa inutile. Che importanza aveva se gli uffici della ditta erano nel Vecchio Nuovo Messico, e la sua casa dalle parti di quella che una volta era stata Filadelfia? Poteva essere rilevante il fatto che la Nubile Corson arrivava ogni mattina dalla Polonia Tedesca, e la Nubile Hall, segretaria del Privato, la sera andava a dormire a Karachi?
La popolazione era stata stabilizzata sotto i limiti delle risorse. C'era abbastanza rame da fornire energia per sette secoli ancora: rame che, si diceva, un tempo veniva usato per veicolare deboli impulsi elettrici. E quando il rame fosse finito sarebbe stato facile sintetizzarne altro. Il cibo - quella spiacevole e segreta, ma ahimè necessaria cosa - non era più un problema. E per ristorare la mente e il cuore c'erano le astronavi, che ruggivano via verso le stelle e tornavano dopo anni, portando strani fossili e buffe pietre, in lenti viaggi di andata e ritorno in cui gli equipaggi invecchiavano ma che arricchivano il mondo.
Un tempo, Roan lo sapeva, s'era parlato di transplat interplanetari; però era risultato chiaro che l'effetto era possibile soltanto in un campo gravitazionale di «viscosità» planetaria. Terminato l'enorme sforzo costruttivo per istallare la Centrale Transplat, il sistema poteva essere esteso in ogni angolo del globo, ma non fra i pianeti. E questo era un bene, com'era solito dirgli suo padre. Cosa sarebbe accaduto alla loro struttura culturale meravigliosamente bilanciata, se d'improvviso l'umanità fosse stata libera di disperdersi nell'universo come ora si disperdeva ai quattro angoli del mondo? E perché poi andarsene? Cosa poteva esserci di attraente per chiunque (salvo che per uno spaziale squilibrato) fuori dalla Terra?
Ricordava d'aver letto una dichiarazione: Una razza capace di edificare la perfezione al punto in cui l'abbiamo edificata noi, è una razza capace di mantenerla per sempre. Erano occorsi quindicimila anni perché l'umanità uscisse dalla preistoria, popolando la Terra per poi distruggerla durante una guerra spaventosa. Erano occorsi cinquecento anni per concentrare le poche centinaia di migliaia di sopravvissuti in Africa, l'unico continente dove l'uomo poteva ancora vivere. Erano occorsi seicento anni alla Colonia Africana per raggiungere il livello tecnologico che aveva prodotto il transplat. Ma tutto ciò era successo soltanto centocinquant'anni addietro. La tecnologia del transplat poteva costruire una città in pochi giorni, montarla su una piattaforma indistruttibile e spostarla ovunque, oppure proteggerla con cupole a prova di radiazioni dove fosse necessario. La gente poteva stabilirsi ovunque... e lo faceva. La gente poteva lavorare la terra per le sue risorse quasi ovunque... e lo faceva.
Roan sospirò, sentendosi già molto meglio. Distolse lo sguardo dal calmo e indaffarato Grosvenor Center e pigramente contemplò ciò che era visibile dell'orizzonte. Una montagna incappucciata di neve si levava come una nuvola in lontananza, e dalla parte opposta c'era un mare, esteso a perdita d'occhio. Si chiese di quale montagna e di quale mare potesse trattarsi, e rise. Erano particolari ormai poco importanti per un uomo, per l'intera umanità.
Passeggiò per il Grosvenor Center da un capo all'altro, soddisfatto, orgoglioso. Era giovane e pieno di vita, ed era un buon partito... forse capitava a tutti di perdersi in allucinazioni come quella della sua visione bionda, quando giungeva quel periodo della vita. Il matrimonio, dopotutto, racchiudeva un certo animalesco mistero, e come quello del suo negozio di fioraio, dove ripuliva il corpo e i denti e si nutriva di cibi concentrati, esso non poteva venir fatto oggetto di discussione. Avrebbe dovuto aspettare e vedere; al momento giusto quel mistero gli si sarebbe spiegato da solo, come probabilmente accadeva a tutti quanti.
Uscì nel viale centrale sentendo di amare ogni persona al mondo e, per un momento, perfino Nonnina.
Nonnina! Si fermò e chiuse gli occhi, il volto contratto in una smorfia. S'era quasi dimenticato di lei. Be', che aspettasse e fiorisse! Quel mattino lui aveva passato dei brutti momenti, e il solo pensiero di Nonnina adesso gli riusciva insopportabile. Chi mai, dopo essersi appena tirato fuori da una mattina di sofferente umiliazione, avrebbe voluto trovarsi di fronte quel monolito di rispettabilità? Inoltre, quelle visite gli erano insopportabili. Avrebbe chiesto a sua sorella Valerie di andarci lei. Qualcuno della famiglia doveva addossarsi quella visita, una volta alla settimana. Il perché non lo sapeva, né l'aveva mai domandato. Che ci pensasse Valerie. A cosa serviva avere una sorella se non la si poteva mandare a fare un lavoro spiacevole una volta ogni tanto?
Attraversò il viale, entrò in una cabina e formò sul videophon il numero di Valerie. Gettò un'occhiata all'orologio: doveva esser già rientrata per la pausa di mezzogiorno.
Era in casa. Ma appena vide la sua faccia disse: — Roan Walsh, se hai chiamato per scaricarmi addosso la visita a Nonnina è meglio che tu non ci provi neppure. Io faccio già il mio dovere verso la famiglia, e che sia benedetta se riesco a vedere una ragione per cui dovrei fare di più, o per cui tu dovresti fare di meno. Perciò non dire una parola. — Lui aprì bocca, ma prima che potesse fiatare lei lo precedette: — Guarda di non arrivare in ritardo da lei. E soprattutto non arrivare in anticipo.
Roan aprì di nuovo la bocca, ma lo schermo era diventato nero.
Di nuovo fuori nella luce filtrata del sole lasciò che il suo malumore sfumasse in un freddo divertimento. Era un umore abbastanza raro in lui, un miscuglio di risentimento cerebrale e conscio autocontrollo. Come aveva fatto la razza umana, si chiese, a crescere così meravigliosamente? Be', interrogandosi su ciò che andava bene e ciò che non andava... e quando le cose non andavano l'uomo le cambiava finché non funzionavano. E adesso tutto quanto andava bene per lui. Tutto salvo questa faccenda di Nonnina. La domanda era: perché doveva far visita a Nonnina? La risposta: perché qualcuno doveva farlo. Ma questa non era una risposta. Girandola in un altro modo, allora: cosa sarebbe successo se non ci fosse andato?
Avanzò con passi misurati sul marciapiede, sostenendo a testa alta gli sguardi di chi veniva in senso opposto. Ma l'umore divertito e orgoglioso gli durò appena pochi minuti ancora, perché la risposta alla domanda «Cosa sarebbe successo se non fosse andato?» era:
Dalla Madre, quel suo sguardo ferito e una valanga di piccole penitenze.
Da Val, silenziose recriminazioni e battute petulanti, un giorno dopo l'altro.
E dal Privato, tuoni e fulmini. E addio alla partecipazione nella ditta. Be', ai germogli la partecipazione!
Su quel pensiero smise di camminare. Cosa resta da fare a uno che abbandoni gli affari e le attività della famiglia?
Non conosceva nessuno che l'avesse fatto. E dove avrebbe potuto andare? Quale altra vita avrebbe scelto?
Ma l'altra metà di lui stesso lo sfidava: Ah, piantala! Non vorrai saltare qua e là per il Cosmo, per risparmiare a te stesso un'oretta con quella vecchia donna?
Roan non rispose a quella vocina, così essa continuò: E infine, cos'hai tu contro Nonnina?
— È una seccatura — disse Roan ad alta voce. Si volse ed entrò in un negozio di decoratore.
Che cosa? lo sfidò il Roan interiore.
— Comprare qualcosa per Nonnina — replicò. E la voce interna, maledetti i suoi petali, ridacchiò e disse: — Sai una cosa, Roan? Sei uno sciocco codardo.
Il decoratore era un vecchio Celibe dall'aria contegnosa. Roan acquistò rose e giunchiglie ibride, pagò e si diresse alla porta. A un tratto cedette a un impulso di quel suo strano umore e tornò dentro. — Come venivano chiamate queste botteghe dove vendete rose, prima di metterci l'insegna decoratore? — domandò.
L'uomo emise un nitrito da soprano che a fatica Roan identificò come una risatina. S'appoggiò al banco, gettò uno sguardo cauto a destra e a sinistra, e in tono confidenziale sussurrò: — Fiorista! — E il suo volto si contrasse in un'improvvisa angoscia, mentre sulle palpebre gli luccicavano due lacrime.
Roan attese pazientemente che l'uomo si calmasse, poi chiese: — Ma allora, perché adesso chiamano fiorista quel posto lei-sa-quale?
Questo rese l'uomo di nuovo flemmatico. Si grattò la pallida testa calva. — Non saprei. Suppongo sia perché, comunque lo chiamassero prima, la gente diceva battute o imprecazioni su quelle cose. Come adesso con... i negozi di fiorista.
Roan ebbe un fremito, di cui non comprese bene il motivo; ma con esso penetrò in lui la sensazione d'esser giunto attraverso un sentiero melmoso a una grande verità, e per un motivo indefinibile seppe che non avrebbe mai più motteggiato o imprecato sui negozi di fiorista. Né su qualunque altro nuovo nome avessero dato alla faccenda dopo che quello fosse diventato un nome troppo sporco. Accigliato constatò: — Dev'esserci qualcos'altro su cui dire una battuta spinta o imprecare, no?
L'uomo considerò la domanda con accigliata perplessità, quindi scosse le spalle. A Roan parve un gesto disgustato e di rimprovero, come quello che suo padre gli aveva rivolto anni addietro, quando ancora non aveva imparato a tenersi in bocca certe curiosità. Gli aveva fatto varie domande sui transplat, finché ad un tratto non s'era più trattenuto dal chiedergli come funzionava la faccenda. Il Privato s'era azzittito, aveva esitato, quindi le sue spalle s'erano scosse nello stesso gesto, il cui significato era: «Le cose vanno così perché vanno così, e basta».
Tornando alla zona dei transplat, Roan si fermò davanti a una vetrina dove s'erano radunate alcune persone. Era un negozio di recente apertura, la cui insegna diceva: GIOCHI E PASSATEMPI. Da ragazzo s'era, segretamente, sciolto le dita su una quantità di giochi d'abilità: fasci di bastoncelli da costruzione, labirinti mobili, cordoni da annodare in piatte strisce colorate che poi risultavano del tutto inutili e rompicapo di vario genere. I passanti stavano fissando l'oggetto esposto.
Si trattava di due mani meccaniche, ovviamente guantate, che manovravano due stecchi di ferro dal cui continuo intrecciarsi nasceva una morbida striscia piatta di quello che sembrava tessuto. Nessuno avrebbe osato compiere quei gesti all'aperto, ma la simulazione meccanica era accettabile, anche se qualcuno ridacchiava imbarazzato.
All'interno, su una scaffalatura, erano deposti molti esempi del materiale che si poteva produrre con l'esercizio dei due ferri. Roan entrò, e quando fu certo che il mantello l'avrebbe protetto dagli sguardi altrui sporse una mano per tastare una di quelle strisce morbide.
Il filo con cui era stata tessuta risultava compatto, grazie al suo singolare metodo d'intreccio, e gli parve un risultato interessante. Gli si ripiegava mollemente intorno alla mano come un... come un...
— Quanto costa? Che cos'è — domandò alla commessa.
La donna gli si avvicinò: — Lo chiamavano «lavoro a maglia».
III
Balzò ai Cortili la Farge, poi a Kimberley, a Danbury Marble e a Krasniak, esaminando liste di acquisti e consultando ragionieri. Fece tutto il necessario senza consultare i suoi appunti, poiché a mezzogiorno aveva lasciato l'ufficio senza farsene stampare una copia dal suo computer. Malgrado ciò eseguì il lavoro con efficienza e precisione, anche se tutti dovettero giudicarlo troppo frettoloso. Ma a Roan importava di più che l'ufficio non s'accorgesse del fatto che lui aveva usato per i suoi scopi personali le prime due ore del pomeriggio.
Quella piccola disonestà gli lasciò comunque addosso un senso di colpa. L'onore era parte dell'insieme decoro-intimità-perfezione. E tuttavia cominciava a sembrargli che nel mondo degli affari, per ottenere un vantaggio economico, bisognasse entro certi limiti farne a meno. Questo significava che lui non era, e non poteva essere, quello che suo padre chiamava un gentiluomo? E comunque, quanta importanza aveva ciò?
Decise che non aveva molta importanza; maledisse allegramente la voce interiore che continuava a dargli torto e andò a far visita a sua nonna.
Che gli piacesse o meno, Nonnina gli istillava nelle viscere un timore del tutto particolare. In nessun altro luogo del pianeta gli era mai accaduto di avvertire come lì, in quel cortile, la presenza di un'intera cultura: decenza, intimità, correttezza.
Scese dal transplat e andò a controllare l'ora sul quadro dei comandi. Ne fu compiaciuto: non avrebbe potuto essere più puntuale.
Ci fu un lieve ronzio e una porta scivolò di lato. Era sempre la stessa porta, e come già altre volte si chiese se vi fossero altre stanze, e quali, nella casa di Nonnina. Non si sarebbe stupito nell'apprendere che, se c'erano, erano vuote. Quali potevano essere le sue necessità, oltre la rettitudine, la solitudine e una stanza in cui ricevere?
Entrò e rimase rispettosamente in piedi. Sua nonna, capelli candidi, abito rigido come l'avorio, pelle di cera bianca, gli comunicò con un cenno delle pesanti palpebre che poteva accomodarsi. Roan sedette di fronte a lei, al lato opposto del pesante tavolo dalla superficie spoglia.
— Madre di mio padre — la salutò formalmente. — Ti auguro una buona Stasi.
— Ehilà — disse lei, con affettazione. — Come ti butta, ragazzo? — E malgrado il suo stato d'animo, Roan fu colpito dal fascino arcano di quell'impeccabile linguaggio vecchio stile. La voce di lei era ancora chiara e ben udibile, ma aveva un tono che faceva pensare a un vento lontano. — Hai l'occhio smorto del mezzemaniche che ingoia rospi su rospi.
Roan capì, ma soltanto grazie ad anni di esperienza nel suo strano eloquio fuori moda. — Non va troppo male. Si lavora.
— Come tira avanti la bottega? — La vecchia donna viveva in qualche suo mondo vago e silenzioso, separato dalla realtà del presente, ma non trascurava mai di fargli quella domanda.
— Oh, come al solito... ti ho portato una cosetta. — Dalla tasca interna del mantello tolse le decorazioni che aveva comprato, spezzò il sigillo del cilindro a vuoto e le porse l'esplosione di rose e di giunchiglie che s'erano spalancate attorno. L'altro pacchetto cadde sul tavolo.
Apparve per un istante un guanto niveo, e la donna afferrò gli steli chiusi nell'involucro umidificante. Immerse il viso nella fragrante massa di colori, e lui la udì inalare il respiro dal naso. — Hai avuto una pensata fine, ragazzo — approvò. — E questo cos'è? — Prese il pacchetto, se lo mise in grembo per scartarlo al riparo dell'orlo del tavolo, e chinò il capo per guardarlo meglio. — Ferri da calza! Avrei giurato che non ci fosse più un cane a ricordare cos'è questa roba, oggi. Già quand'ero una fringuella della tua età la usavano soltanto i vecchi rinciucchiti. Si sedevano al sole, gli uomini biascicavano i loro ricordi e le vecchie facevano andare i ferri.
— Pensavo che li avresti graditi. — Roan notò il lieve scrollarsi delle sue spalle, poi la donna chiuse l'astuccio e lo infilò in un cassetto del tavolo.
Si guardarono per un poco, infine lei chiese: — Il lavoro ti pesa troppo? Hai l'aria di... be', mi stavi parlando di bottega. Come tirano gli affari?
— Come sempre — disse lui. — Questa mattina ho avuto un'idea e ne ho parlato al Privato. Credo che la utilizzerà. Era soddisfatto. Ha parlato di farmi socio.
— Questo è positivo, ragazzo. Che idea gli hai ventilato?
Lei non avrebbe capito. Ma gliela spiegò lo stesso, e scegliendo con cura le parole disse del suo progetto per eliminare gli operatori dei transplat. La donna annuì gravemente alle sue parole, e ad un certo punto lui ebbe la folle tentazione di inventarle lì per lì termini tecnici cervellotici per vedere se avrebbe continuato ad annuire. Era certo che l'avrebbe fatto: per lei tutto era lo stesso. Le bastava di mostrarsi educata.
Ma si controllò e concluse: — Così, se funzionerà, porterà a un certo risparmio. E non sarà possibile che qualche carico finisca chissà dove. — Fu sul punto di raccontarle l'episodio delle donne finite nella clausura del monastero, ma si trattenne appena in tempo; la vecchia signora ne sarebbe rimasta sconvolta. — Sai, in passato questo è accaduto.
— Credo anch'io che non farai una brutta frittata — fu d'accordo lei, e annuì ancora come se avesse capito tutto.
Adesso toccava a lui restituirle la cortesia, pensò Roan, e disse: — E tu cos'hai fatto di bello, Madre di mio padre?
— Vorrei che seguitassi a chiamarmi Nonnina — disse lei, con un'ombra di petulanza e un sospiro stanco. — Cos'ho fatto? E come vuoi che sbatta via il tempo alla mia età? Lo sai quanti anni mi tiro dietro, Roan?
Lui accennò di sì.
— Centottantatrè primavere filate — disse lei, ignorandolo. — Ne ho viste di cose io, ai miei tempi. Le storie che potrei raccontarti... lo sai che sono nata nella Colonia Africana?
Lui annuì di nuovo, e di nuovo lei lo ignorò. — Proprio così. È là che sono nata. E avevo grosso modo la tua età quando tutto questo prese il via, quando il transplat rovesciò il secchio dentro cui vivevamo, e la gente ne schizzò fuori spargendosi in ogni angolo del mondo.
Sì, tu l'hai visto accadere! pensò lui, afferrando per la prima volta la realtà di quella che fino allora gli era apparsa solo come una linea su un grafico. Tu hai visto quando la gente danzava petto a petto, e mangiava insieme, e nessuno ci faceva caso. Conoscevi la nostra cultura prima che vi fosse qualsiasi vero decoro e intimità... tu che sei la persona che vive nel decoro e nell'intimità più di chiunque, oggi. Le storie che avresti da raccontare? Oh, sì... solo che non potresti raccontarle. Che nome usavano, prima di chiamarli «Negozi di fiorista»?
Certo che lei non avrebbe potuto neppure intuire il motivo della sua curiosità, le chiese: — Cosa faceva la gente a quel tempo, Nonnina? Voglio dire... oggi, se c'è un compito che possa essere comune a tutti, potremmo dire che consiste nel mantenere la perfezione che abbiamo. A quell'epoca voi avevate qualcosa del genere?
Gli occhi di lei ebbero un lampo. Nonnina aveva gli occhi più brillanti e i denti più bianchi che lui avesse mai visto. — Sicuro che l'avevamo. — La donna chiuse gli occhi. — Non posso darti a bere che ci perdessimo troppo dietro questa cosa della perfezione... non nei primi tempi. La cosa che avevamo inchiodata in testa era il prossimo passo in avanti. Sempre fare un altro passo avanti — ripeté, assaporando la frase. — Sai cos'è quel che abbiamo oggi, Roan? Be', noi siamo i primi nella storia della razza umana che non lavoriamo più in quel senso, in un modo o nell'altro. Dovrebbero insegnare la storia, oggi! Sì, dovrebbero. Ma ho idea che alla gente non piacerebbe, la storia. Sia come sia, quand'ero ragazza tutti volevano sempre migliorare, andare avanti.
«Qualche volta s'erano fermati magari per cento o duecent'anni, e avevano pensato solo a ripulirsi l'anima; e qualche volta s'erano dimenticati anche di averci un'anima per buttarsi a diventare più veloci e più forti e più rumorosi. Qualche volta facevano delle maledette porcate, e qualche volta agivano bene soltanto per sbaglio. Ma tutto il tempo lavoravano e ci davano dentro per fare quel passo in avanti. Oggi invece no — terminò bruscamente.
— No, naturalmente. A che ci servirebbe un passo avanti? Dove ci porterebbe un passo in avanti?
— Questa era la vita — disse lei, — quando a nessuno gli sarebbe passato per il capo che voi sareste riusciti a fermare il progresso. Un seme d'erba può spezzare in due un pezzo di granito, lo sai. E l'acqua contenuta in un tubo di ferro può sfondarlo se la raffreddi.
— Noi siamo diversi — disse lui con umile orgoglio. — Forse la differenza fra l'uomo e gli altri generi di vita è questa. Noi possiamo fermarci.
— Puoi dirlo forte. — Lui non capì quell'osservazione. Prima che potesse domandarne il significato la vecchia continuò: — Cosa ne sai dello Psi, Roan?
— Psi? — Lui dovette frugare nei suoi ricordi. — Oh, adesso rammento. Giochi e Passatempi ne vendeva, un paio d'anni fa. Mi sembrò un giochetto abbastanza insulso.
— Quello! — sbottò lei, con tutto il disprezzo di cui era capace la sua voce fragile e lontana. — Quello era un gioco di indovinelli. Non meritava d'essere chiamato Psi. Io sto parlando di un'altra cosa, più antica di quanto tu e chiunque altro possiate immaginare. Apri gli orecchi, ragazzo: per diecimila anni la gente ha creduto che ci fosse tutto un mondo di poteri nella mente umana. Telepatia, telecinesi, teleferesi, chiaroveggenza... e altri ancora. Ma non importa, non voglio tenerti una conferenza — disse, con occhi che d'improvviso scintillavano.
Lui si accorse d'aver appena mascherato uno sbadiglio - uno piccolissimo, e a bocca chiusa - e che la donna l'aveva notato. Arrossì d'imbarazzo. Lei non ci fece caso e proseguì:
— Quello che sto dicendo è che c'è una frotta di prove sulla loro esistenza, se sai dove andare ad annusare. Una mente che parla a un'altra, qualcuno che si spara da un posto all'altro in un batter d'occhio e senza bisogno del transplat, gente che sa in anticipo quello che sta per succedere... e tutto con il potere della mente. Capita da migliaia di anni. Nessuno ha mai capito un fico come funzionava la cosa... e nessuno ha mai avuto bisogno di capirlo. Ma è ancora intorno a noi.
Roan si chiese cos'avesse a che fare questo con l'argomento di cui avevano parlato. Come se avesse sentito quella domanda, lei disse: — Tu volevi sapere quale potrebbe essere il prossimo passo in avanti, nel caso che ci sia qualcuno capace di chiederselo. Be', è questo.
— Non lo definirei un passo avanti — replicò lui, rispettosamente ma in tono pratico. — Siamo già capacissimi di spostare gli oggetti, di parlarci a distanza, e di tutto ciò che hai menzionato. Sappiamo anche prevedere quel che ci prepara il futuro. Ogni cosa è programmata. Dunque che vantaggio ci sarebbe?
— Che vantaggio c'è nel levare di mezzo gli inservienti dei transplat?
— Questo è semplicemente un risparmio.
— E come chiameresti la possibilità di usare la telecinesi e la teleferesi per spostare gente e merci, senza il transplat?
— Senza il transplat? — gridò quasi lui. — Ma tu... ma noi...
— Tu e io ci troveremo nella stessa barca degli operatori che stai per mandare a fare ghiande.
— Gli ope... be', non ho ancora pensato a cosa sarebbe di loro.
Lei annuì.
Un po' scosso Roan mormorò: — Mi chiedo perché il Privato non me l'abbia fatto notare, stamattina, quando gli ho esposto l'idea.
Dalla gola della vecchia donna emerse un suono di compiacimento. — Non gli è balenato nel cranio. Lui non ha mai capito niente di come le cose funzionano: si limita a farle funzionare.
Roan cercò di controllarsi. Uno non poteva starsene zitto ad ascoltare critiche a suo padre. Ma lei era la Madre di suo padre. Lo sforzo d'autocontrollo servì però a fargli vedere quella strana conversazione in un'altra prospettiva, e gli sfuggì una risatina fiacca. — Be', a conti fatti non credo che in quel modo realizzeremmo un risparmio.
Lei inarcò le sopracciglia. — Questo progresso di cui parlavamo... ti dirò che anche ai tempi miei molta gente era convinta che fosse l'uomo a programmare il progresso dell'uomo. Ma quando vai al nocciolo della cosa, ti accorgi che neppure il primo troglodita a cui successe di camminare eretto non lo fece perché voleva farlo. Lo fece perché si accorse di esserne già capace. — Quando vide che lui non replicava, aggiunse: — Quello che sto dicendo è che se ai vecchi tempi avevano ragione, e se è vero che il progresso non può essere fermato, allora adesso sta per ripartire. E se riparte, ragazzo, ti schizza via fra le mani... che ti piaccia o che non ti piaccia, che tu sia il capo della J. & D. Walsh oppure l'ultimo stivatore di scorie.
— Be', non credo che succederà.
— Cos'hai negli orecchi quando ti parlo, segatura? Ti ho appena detto che quella cosa è ancora fra noi.
— E allora perché loro... questa gente, dovrebbe mostrarcelo adesso e non, diciamo, fra un migliaio d'anni?
— Perché l'umanità non aveva mai detto basta al progresso. Non in questo modo. — E ruotò lo sguardo attorno alle pareti, come a indicargli l'intero pianeta che li circondava.
— Nonnina, tu vuoi che succeda? Tu?
— Quello che voglio io non conta uno sputo. C'è sempre stata gente con quei... poteri. La mia ipotesi è che oggi, fra tutte le epoche possibili, sia venuto per loro il momento di fare quel passo in avanti. Oggi che noi, ragazzo, non facciamo più un passo verso niente.
Lui volle insistere: — Tu pensi che sarebbe una cosa positiva, allora?
La vecchia esitò. — Guardami bene, guarda come sono decrepita. È una cosa positiva, questa? Ma non importa: succederà. Deve succedere.
— Perché mi parli di questo? — sussurrò lui.
— Perché tu mi hai chiesto cosa sto facendo di bello — disse lei. — E io ho avuto la gentilezza di dirtelo. Penso a queste cose. Ti spaventano?
Lui accennò di sì, ottusamente.
Anche la vecchia annuì, e rise. — Ti fa bene. Ai tempi miei eravamo spesso maledettamente spaventati. E questo ci dava una spinta.
Lui scosse il capo. Ti fa bene. Non riusciva affatto a immaginare che razza di bene quel cosiddetto «progresso» poteva fare se minacciava l'esistenza dei transplat. Cosa ne sarebbe stato di loro? Cosa ne sarebbe stato del loro sistema di vita, e della stessa intimità se qualcuno avesse potuto (come l'aveva chiamata? Teleferesi?) a suo piacere teletrasferirsi nell'ufficio o nel cubicolo di chiunque altro...
— Ascolta, ragazzo, non aspettare che venga il tuo turno se vuoi fare due chiacchiere con la vecchia Nonnina. Datti una mossa quando avrai voglia di parlare di qualcosa. Solo fammelo sapere prima. Nient'altro.
Non c'era nulla che Roan desiderasse meno di un'altra seduta di quel genere, ma ricordò che l'educazione imponeva di ringraziarla. — Arrivederci allora, Nonnina.
— Ci sentiamo, ragazzo.
S'affrettò al quadro-comandi e febbrilmente compose il numero di casa sua. Poi saltò sulla piattaforma. L'ultima cosa che vide, al di là della porta aperta, fu il volto di Nonnina e su di esso un'espressione di... era pietà?
O forse «compatimento» era la parola più adatta.
IV
S'avviò subito al suo cubicolo sfiorando sua sorella che era ferma in un angolo del cortile. Gli parve che fosse sul punto di dirgli qualcosa, ma deliberatamente le volse le spalle e affrettò il passo. La sua mediocrità soddisfatta, le sue interminabili recite sui doveri quotidiani e il suo placido autocompiacimento erano proprio ciò che in quel momento non avrebbe sopportato. Aveva bisogno d'intimità, molta intimità, e subito.
Appena chiusa la porta vi si appoggiò con le spalle. Gli scoppiava il cervello. Era un cervello abilissimo nell'isolare le idee insopportabili in una serie di compartimenti stagni, trasferendole poi dall'uno all'altro finché non le aveva ruminate a fondo. Questo era il motivo per cui sapeva manovrare d'istinto i molteplici affari della ditta. E questo era il motivo per cui era passato indenne attraverso quella giornata straordinaria... fino a quel momento. Ma i compartimenti erano saturi; non doveva succedergli nient'altro.
S'era svegliato poco dopo l'alba per vedere, sullo sfondo chiaro della parete, una ragazza dalle vesti fluttuanti che lo fissava con gravità. Aveva i capelli d'oro e le mani intrecciate su un ginocchio. Non era riuscito a vederle i piedi... non allora.
Era salito sul transplat per andare in ufficio, piombando invece in un luogo non identificabile dove aveva visto intorno a sé strani tendaggi e la stessa ragazza. Lei gli aveva parlato.
Se l'era ritrovata davanti, appollaiata sulla sua scrivania.
Aveva sprecato due ore in un'insolita autoanalisi che l'aveva lasciato perplesso e poco sicuro di sé, ed era andato a fare una visita di rispetto alla sua molto rispettabile nonna, la quale gli aveva riempito la testa con le più sconvolgenti congetture su cui un uomo decoroso potesse mai soffermarsi a riflettere... inclusa una che sembrava alla base delle sue folli visioni. Perché gli aveva suggerito il pensiero che grazie a una forza chiamata tele-qualcosa-o-qualcos'altro certa gente poteva apparire ovunque, con o senza transplat?
Sbuffò. Non c'era bisogno del transplat per avere delle visioni. E lui aveva sognato la ragazza, lì nel cubicolo e nel cortile chiuso da tende. L'aveva sognata nel suo ufficio. — Ecco qua! — disse a se stesso. — Adesso ti senti meglio?
No.
Chiunque avesse sogni di quel genere avrebbe fatto bene a stare lontano dal transplat.
E sia pure, pensò, non erano sogni.
In tal caso Nonnina aveva ragione: qualcuno disponeva di un sistema così superiore al transplat che il mondo - il suo mondo - ne sarebbe stato stravolto. Se soltanto si fosse trattato di uno sviluppo tecnologico avrebbe potuto esser fermato, messo al bando per mantenere la Stasi. Ma se era qualcos'altro... allora era un incontrollabile, assurdo, impalpabile mistero conosciuto solo a pochi individui e lui, Roan, era uno di loro.
Era insopportabile, impensabile. Indecente!
Andò dal fiorista e si fece servire la cena. Ma ebbe un grugnito di sorpresa quando, invece delle solite quattro tavolette e del bicchiere di vitabroth, si ritrovò fra le mani qualcosa di caldo, molliccio e fibroso. Lo esaminò da una parte e dall'altra. Era la cosa dall'aria meno commestibile che avesse mai visto in vita sua. D'altra parte, ogni tanto accadeva che ci fossero delle innovazioni quando il Servizio Nutrizione era pronto a cambiare i prodotti di base a causa dei batteri mutanti e della necessità di fornire nuovi antibiotici.
Ma quel prodotto era troppo voluminoso, oltreché strano. Forse, pensò d'un tratto, era un miscuglio di sostanze nutrienti e crusche stimolanti.
Vi affondò i denti. Un caldo sugo rossiccio gli colò lungo il mento, e un sapore quantomai piacevole gli riempì la bocca, le narici e - così gli parve - perfino gli occhi. Era così buono che lo sforzo di masticarlo gli sembrò una delizia.
Prima che si raffreddasse l'aveva già mangiato fino all'ultimo pezzetto, e si permise un sospiro di meraviglia. Frugò nel vano del distributore automatico nella speranza di trovarne ancora, ma la cena era tutta lì, a parte il vitabroth. Si portò il bicchiere alle labbra, poi cambiò idea e lo depose: niente doveva levargli di bocca quell'incredibile sapore finché avesse potuto continuare a gustarlo.
Scivolò nello scomparto parasguardi e in fretta si cambiò d'abito. Mentre trasferiva nella nuova tasca il portafogli si fermò a guardarci dentro, per controllare se andava riempito.
Ma a riempirsi fu il vuoto che era rimasto nella sua memoria. Uscendo dall'ufficio del Privato s'era trovato faccia a faccia con il suo... con quel... be', sogno o meno lei era stata là. Ed era svanita. E sull'angolo della scrivania, proprio dov'era stata seduta, aveva lasciato un numero di transplat... quel numero che ora gli ricapitava in mano.
Proprio come una creatura di sogno, la ragazza non gli aveva parlato né in ufficio né nel cubicolo. Ma l'aveva fatto nel cortile con le tende. E quell'episodio, per quanto improbabile, non poteva esser stato una fantasia onirica. Per trasportarsi là aveva composto un numero. Poteva aver sbagliato, certo, ma era stato ben sveglio.
E stabilì che lei doveva essere uno di questi... questi nuovi mostri del prossimo passo avanti di cui aveva parlato Nonnina. E lui doveva sapere, doveva parlarle ancora. Non per via dei suoi capelli, naturalmente, né di quel vestito sfrontato. Doveva chiarire la faccenda del transplat, poiché la Stasi era ciò che teneva unita la società. Questo era semplicemente il dovere di un buon cittadino.
Rientrato in casa si mise un nuovo paio di guanti e tornò nel cortile. Valerie era sempre lì, e lo accolse con espressione speranzosa.
— Roan!
— Più tardi — sbottò lui componendo il numero.
— Per favore! Solo un minuto!
— Non ho un minuto, adesso — replicò lui, e saltò nella piattaforma. Lo sfarfallio di tenebra interruppe i richiami della ragazza. Roan scese dalla piattaforma d'arrivo e s'arrestò di colpo, stupefatto.
Niente tendaggi! Niente profumi. Niente... oh, santissimo Privato in paradiso!
— Celibe Walsh! — stridette la Nubile Corson. Gli occhi della segretaria rotearono fin quasi al punto di schizzarle dalle orbite. Le sue mani, grazie all'Energia decentemente guantate, balzarono in alto lasciando annodato indecentemente nei lunghi capelli un pettine. Dal che lui dedusse d'aver interrotto nientemeno che un'operazione intima. All'istante capì cos'era accaduto, e un impeto di furia spazzò via l'imbarazzo che l'aveva letteralmente paralizzato.
La donna doveva avergli visto gettar via il suo numero di transplat, e s'era premurata di portargli un secondo fogliettino. Un numero che lui aveva intascato con emozione, e che aveva composto aspettandosi i tendaggi, le braccia nude, i capelli d'oro e tutto il resto... per trovarsi invece faccia a faccia con questo!
— Privato! — gridò la Nubile Corson. — Madre! Madre! — Chiamava i suoi genitori, naturalmente. Be', ogni ragazza onesta e decorosa l'avrebbe fatto.
Roan deviò in direzione del quadro-comandi. Anche la segretaria vi si precipitò, ma lui fu molto più svelto.
— Non se ne vada, Celibe Walsh! — ansimò lei. — Madre Corson e il mio Privato non sono in casa al momento, ma sarebbero stati qui se solo avessi potuto immaginare... io li farò tornare subito, però. No, per favore, non se ne vada così!
— Mi ascolti — la bloccò lui. — Ho trovato questo numero sulla mia scrivania, e ho creduto che a lasciarlo fosse stato Grig Labine. Avevo appuntamento con lui, anzi sono già in ritardo. Mi spiace molto aver invaso la sua intimità, ma è stato un errore. Capisce? Soltanto un errore.
L'eccitazione della donna crollò così all'improvviso che tutto il suo corpo parve contrarsi. La bocca le s'incurvò in basso, umida e patetica; le mani ebbero un timido gesto convulso, e con un doloroso sorriso annuì per mostrare che aveva capito. Oh, bastardo spietato, che ti ha mai fatto di male questa poverina? si accusò Roan.
— Le auguro una sera felice — farfugliò, e compose il numero di casa.
— O-o-o-o-oh...! — il gemito della donna fu tagliato dal transplat.
Restò fermo dov'era comparso, con gli occhi chiusi per l'imbarazzo, traendo alcuni profondi respiri.
Ma subito dopo ai suoi orecchi giunse un lamentoso: — Per favore... — e per un allucinante momento pensò che il transplat della Nubile Corson non avesse funzionato. Riaprì cautamente gli occhi, poi fece un sospiro e scese. Era a casa. Quel miagolio era uscito dalla bocca di Valerie.
— Be', che c'è che non va? — le chiese.
— Roan — gemette lei, — ti prego, non arrabbiarti con me. So che mi sono comportata male. È solo che... dovevo farlo ma, oh, non avrei dovuto essere tanto...
— Di cosa stai parlando?
— Di quando mi hai chiamato per chiedermi di andare da Nonnina.
Roan aveva l'impressione che fosse un episodio ormai lontano nel passato e privo d'importanza. — Dimenticatene, Val. Avevi perfettamente ragione e ci sono andato io, perciò lascia perdere.
— Non sei arrabbiato?
— No di certo.
— Ah, bene. Mi fa piacere, perché ho bisogno di parlarti. Posso? — lo supplicò.
Questo era insolito. — Parlarmi di cosa?
— Non potremmo uscire per un po', Roan?
— Dove sono la Madre e il Privato?
— Nella Stanza di Famiglia. Non staremo via molto. Ti prego, Roan.
Lui annuì, incerto. Nel suo mondo Val rappresentava una perenne, per quanto innocua, fonte di scocciature; quella era probabilmente la prima volta che la vedeva come una persona umana, con i suoi problemi personali.
— Grosvenor Center? — le domandò.
Lei accennò di sì. Roan compose il numero e salì sulla piattaforma al suo fianco. Al Grosvenor Center era ancora pieno giorno, e vagamente lui si chiese in quale angolo della Terra fosse. Il mare s'era scurito in una distesa blu cobalto, e la montagna era una gloria di luce bianca.
Val lo seguì giù dal transplat. Passeggiando in silenzio oltrepassarono il negozio di decoratore, quello dei giochi e passatempi e il ristorante, finché giunsero al parco. Fianco a fianco sedettero su una panchina, ciascuno nel suo separé alto fino alla spalla, e osservarono la fontana.
Val appariva un po' pallida e le sue spalle si contraevano sotto il mantello dell'intimità: un movimento in parte dovuto ad ansiti simili a singhiozzi, ed in parte al continuo agitarsi delle sue mani.
Con il tono più comprensivo che poté, Roan chiese: — Cosa c'è che non va?
— Tu non mi vuoi bene.
— Ma certo che te ne voglio, invece. Tu sei una brava ragazza.
— No, per favore, non volermi bene. Non voglio. Ho bisogno di parlare con te proprio perché non mi vuoi bene.
Questo risultò del tutto incomprensibile a Roan. Decise che per saperne di più, e più in fretta, gli conveniva stare zitto e lasciarla parlare.
A bassa voce Valerie disse: — Quella che devo dirti è una cosa che mi farà odiare da te, se già non mi detesti, perciò posso dirlo solo a te. Oh, Roan, io non sono buonal
Lui aprì la bocca per negarlo, ma la richiuse subito. L'intuito gli suggeriva che sarebbe stato poco saggio sia darle torto, sia darle ragione.
— C'è qualcuno che... che io ho visto. Poi l'ho visto di nuovo, e gli ho parlato. Lui è... io vorrei... oh! — gemette e cominciò a piangere.
Roan tolse di tasca un fazzoletto sterile, e con gesto il più possibile decoroso glielo porse da sopra il bordo del separé. Sentì, senza vederle, le dita di lei che lo prendevano.
— Il dovere di una Nubile è di attendere — disse lei con voce rotta, — finché un giorno giunge un Celibe a farle visita, ed egli diviene il suo Privato e... e lei diviene il suo sostegno e servizio, per sempre. Ma io non... voglio essere il sostegno e il servizio di un... del Celibe che verrà. Chissà, forse ne verrà uno da un momento all'altro. Invece io voglio che... che sia quello a venire!
— Forse lo farà — cercò di blandirla Roan. — Chi è?
— Io non lo so! — gemette disperatamente lei. — L'ho soltanto visto. Oh, Roan, tu devi cercarlo per me!
— Be', dove potrei...
— È alto. Alto come te — s'affrettò a dire Val. — Ha gli occhi verdi. E ha... — deglutì a vuoto, abbassando la voce. — Ha i capelli lunghi, però non come quelli di una Nubile. E ha una fossetta in mezzo al mento, e su una guancia... sì, la guancia sinistra, ha una piccola cicatrice curva.
— Capelli lunghi? Gli uomini non portano i capelli lunghi!
— Lui sì, invece.
— Una nuova moda? — Roan soppresse una risatina a quel concetto abbastanza eretico. — Se esiste un tipo del genere, capelli lunghi e tutto, quasi chiunque dovrebbe sapere chi è costui e dov'è. Non credi?
— Sì — ammise cupamente lei.
— Dunque la conclusione è che un uomo simile non esiste.
— Ma lui c'è! Io l'ho visto!
— Dove? — Poiché lei taceva, Roan sbuffò: — Se non mi dici dove, come posso trovarlo?
Dopo una lunga esitazione lei si lamentò: — Io... non posso dirtelo. Ma questo non importa, perché non lo troveresti in... in quel posto. — Il suo volto avvampò. Dev'essere da qualche altra parte. Per favore, Roan, cercalo. Il suo nome. Dove abita. Anche se lui non... non... io vorrei almeno conoscere il suo nome — sospirò, malinconica. Poi raddrizzò le spalle: — Il Privato ci starà aspettando.
Mentre tornavano nella zona dei transplat Val disse, fissando il vuoto davanti a sé: — Stai pensando che io sono disgustosa, non è vero?
— No! — protestò caldamente lui. — Qualche volta penso che ognuno di noi è un tantino diverso da ciò che la Stasi si aspetta. Non è affatto «disgustoso» essere un po' diversi. — E il suo subconscio, invece di rimproverarlo, lo indusse a sbarrare gli occhi su quel concetto sorprendente.
V
La Stanza di Famiglia, come ogni locale di quel genere sulla Terra, era il cuore della loro casa. Una poltrona - un vero e proprio trono - dominava una delle pareti. Da essa si manovravano tutti i controlli video ed i raggi audio che venivano messi a fuoco nei punti adatti del locale: il trono in miniatura alla destra dell'altro, riservato al figlio maschio; il banco di legno sulla sinistra, per la figlia femmina; e il tappetino ai piedi del seggio principale, dove sedeva la Madre.
La stanza, grazie alla spessa moquette e al rivestimento antiacustico del soffitto e delle pareti, era silenziosissima, e come voleva l'uso ogni famiglia doveva riunirsi lì per due ore al termine di ogni giornata. Vi si tenevano preghiere stilizzate, lettura a scelta del Privato, qualsiasi genere di conversazione lui consentisse e, se il suo umore era propenso, vi si ricevevano teletrasmissioni da lui ritenute adatte alla famiglia.
Quando Roan e Valerie entrarono il silenzio era ancora più accentuato da un'atmosfera di rigida disapprovazione. Una mano del Privato poggiava ancora sui comandi del video, che doveva aver appena spento; la testa della Madre era volta allo schermo e inclinata di lato, come poggiasse su qualcosa d'invisibile, segno che la trasmissione appena cessata aveva riscosso tutto il suo interesse.
Figlio maschio e figlia femmina si separarono, andando ciascuno al suo posto. Roan non riuscì a reprimere un brivido del vecchio terrore ben noto, sentendo lo sguardo del Privato fisso nella sua schiena come un trapano. Sedette e gettò una rapida occhiata a sua sorella. Val s'era afflosciata sulla sua panca, così oppressa dal peso che la schiacciava che neppure la rigidezza degli abiti indeformabili celava il suo atteggiamento disfatto. Roan, con le dita guantate decorosamente unite, deglutì d'apprensione.
— Ritardo! — sbottò il Privato. — Tutti e due. Cose di questo genere non ti aiuteranno certo a ottenere le mie raccomandazioni, Valerie, indesiderata creatura. — Quella era una minaccia abituale per le Nubili con qualche speranza matrimoniale, e non colpì molto Val. Poi si volse a Roan. — Sarebbe lecito supporre che la mia generosità, anche nel perdonare — lì doveva esserci un'allusione alla compartecipazione nella ditta, — avesse come effetto un minimo sforzo per non ripetere la mancanza. Tu hai trent'anni: sei abbastanza vecchio da capire la differenza fra la Stasi e il caos. Resterai confinato, con il mio lucchetto personale, per quarantott'ore nel tuo cubicolo, dove avrai modo di riflettere sulle conseguenze di un comportamento disorganizzato. Valerie!
Lei sussultò e gli diede la risposta acconcia, che consisteva nell'incontrare il suo sguardo. Roan non aprì bocca, visto che in occasioni di quel genere la sentenza era senza appello.
— Valerie, tu e tuo fratello eravate insieme durante la scappatella che ha danneggiato l'organizzazione di questa casa?
— Sì, Privato, ma confesso che sono stata io a...
— In tal caso sopporterai la stessa punizione. Non già per il ritardo, che non è uno dei tuoi difetti abituali, bensì per aver fallito nell'usare la tua influenza sul tuo irresponsabile fratello. E voglio presumere che tu ci abbia almeno provato, perché mi sarebbe troppo doloroso concludere che entrambi i miei figli mancano degli elementi basilari della decenza.
Ci fu una lunga pausa di pesante silenzio. La Madre, seduta ai suoi piedi, spostò lo sguardo sulla mano di lui ancora a contatto dei pulsanti. Con un lieve movimento inconscio riportò la testa nel punto focale dell'ormai spento raggio audio. La barba del Privato si contrasse quando abbassò gli occhi su di lei.
— E dal momento che dovrà pur esserci rimasta una scheggia di decoro a cui mi possa aggrappare — dichiarò, — lasciamo che essa sia la mia fiducia nella tua conoscenza della correttezza, Madre. Presumendo che tale conoscenza esista, le circostanze indicano che non l'hai fatta ben apprendere ai figli. Di conseguenza, stasera non ci sarà televisione per te. — Girò attorno un'occhiata semicircolare, in cui la sua barba sembrò spazzar via ciascuno di loro come il dorso di una mano. — Siete congedati.
Gli altri tre si alzarono e uscirono. Il pannello della porta si chiuse alle loro spalle. — Scusatemi — osò sussurrare Val, contrita.
— Silenzio! — ruggì la griglia dell'interfono sopra la porta.
I due fratelli attesero in corridoio, a capo chino. Mamma Walsh si allontanò in fretta e tornò subito dopo con due cubetti metallici. Condusse Valerie al suo cubicolo e aprì la porta. La ragazza si volse a guardare Roan, che la consolò con un sorriso mesto, ed entrò. Quando il battente si fu chiuso dietro di lei, Mamma Walsh inserì uno dei cubetti nella serratura, che divenne impossibile da aprirsi dall'interno. Secondo la buona creanza, Roan attese che la donna l'avesse oltrepassato e quindi la seguì al proprio cubicolo.
— E inoltre — lo redarguì la voce dall'interfono, — mi rifiuto di attribuirti un po' di merito per l'idea che hai suggerito questa mattina. Questo perché, se è buona, proviene da persona immeritevole e quindi è foriera di corruzione; se è cattiva non merita considerazione.
Madre Walsh appariva molto triste, ma del resto poche Madri avevano un'aria allegra. Le loro vite erano un misto di silenziosa pazienza e di silenzioso rimpianto, con quel minimo di vivacità intrinseca nella loro opera educativa verso i figli. Lui le sorrise in un tentativo di comunicarle di non prendersela, ma la donna distolse lo sguardo, e Roan capì che aveva frainteso vedendo in lui un'espressione ribelle o impenitente.
Poco dopo, mentre faceva abbassare su di sé il cilindro paravento entro cui spogliarsi, provò a chiedersi cosa sarebbe successo se avesse osato tirare la barba al Privato, per una volta.
Allungando una mano verso la maglietta, i calzoncini e le scarpe da letto si disse: — Scommetto che nel suo amato Libro delle Regole non ce n'è una che gli direbbe come reagire. E idee come la mia non ne ha mai avute.
Questo gli rammentò l'osservazione di Nonnina sul fatto che il Privato non aveva mai capito il vero funzionamento delle attrezzature. Si limitava a farle funzionare. E nello stesso modo, pensò, faceva funzionare la sua famiglia.
Anche lui un giorno sarebbe diventato un Privato, avrebbe avuto una famiglia e tutto sarebbe ricominciato daccapo, pensò insonnolito. Chiuse gli occhi e si lasciò sprofondare verso l'inizio di un sogno in cui lui sedeva su un trono mostruoso, con una barba lunga fino alle ginocchia; si girò e vide suo padre, che appollaiato in un seggiolone per poppanti stava frignando. Sul tappetino ai suoi piedi era accoccolata... be', santo cielo, quella era Nonnina!
A un certo punto la cosa si trasformò in un incubo, ma il tutto si frammentò e scomparve nello sfarfallio di tenebra che Roan identificava nel trasferimento con il transplat. Il buio in cui era precipitato tuttavia continuò a racchiuderlo, come uno spazio non dimensionale, e infastidito captò una sensazione di freddo e la presenza di una superficie dura contro una guancia. Dov'era finito il cuscino? Si girò con un grugnito e la sua nuca sbatté sulla solida roccia. Roan si alzò a sedere di scatto, aprì gli occhi e ciò che vide gli fece emettere un ansito.
Vacillò in piedi. Appena due centimetri più in alto della sua testa c'era l'architrave di una porta, rettangolare e intagliata in quella che sembrava roccia scintillante. Al di là di essa si apriva un cielo verde pallido, alieno, in cui stava sorgendo l'alba.
Si girò, e tutto ciò che vide alle sue spalle fu una pianura purpurea, fitta di spaccature e crepacci, dalla quale si levavano piante verticali simili a grotteschi cactus.
Attraversò la porta, e dopo aver fatto appena sei o sette passi il territorio desolato scomparve bruscamente. Davanti a lui si stendeva ora un dolce panorama ondulato, con un filare d'alberi che seguiva le curve sinuose di un fiumiciattolo. Oltre il corso d'acqua c'erano dei campi - uno marrone, uno giallo, uno verde pisello - e visti in distanza apparivano lisci e regolari come un tappeto. Alla sua destra si levava una catena di montagne, una delle quali dalla sommità così abbagliante che gii ferì lo sguardo. Riconobbe il riflesso dell'alba sulla neve. A sinistra c'era una grande vallata cespugliosa. L'aria era frizzante, ma si stava scaldando in fretta.
Restò fermo dov'era e ne inalò una profonda boccata, cercando di mettere ordine nei pensieri; poi vide poco più a destra un macigno grosso quanto lo scranno del Privato. Su di esso stava seduta una ragazza con i capelli d'oro e dagli occhi strani. Indossava un leggero abito a un pezzo stretto in cintura, che bastava a rivelare più forme femminili di quante Roan ne avesse mai visto, e teneva ambo le mani intrecciate su un ginocchio delicatamente abbronzato. I suoi piedi erano nudi e rosei, imperlati di goccioline di brina.
La bionda sconosciuta gli diede il benvenuto con una risata allegra, si alzò e venne verso di lui a passi leggeri. — Vieni con me — disse.
D'impulso Roan si ritrasse, nascondendo le mani nude dietro la schiena. Ma con un rapido movimento lei gli passò un braccio attorno e lo prese per mano.
— Andiamo su per di qua — canterellò la sua voce. E prima che Roan si fosse ripreso dalla sorpresa lei lo stava già conducendo con sé.
Seguendola per il sentiero in salita le sfiorò con una guancia una spalla nuda. Annusò il suo profumo, sentì l'odore dolce del suo alito, e roteò gli occhi piegando quasi le ginocchia per l'emozione. Un braccio morbido fu per un attimo intorno alle sue spalle, e lei rise ancora.
— Va tutto bene, è soltanto un sogno — gli disse.
— Un so... — lui tossì. — Un sogno?
— Hai sete? — La ragazza allungò una mano, e lui trasalì violentemente quando un calice le apparve fra le dita. — Ecco, per te.
Lui lo prese, esitò, poi lo portò alle labbra. Immobile lei restò a osservarlo, sorridendo. Per pudore Roan le volse le spalle prima di bere. Il liquido era di un arancione brillante, freddo, con un delizioso sapore frizzante dolce-amaro. Schioccò le labbra e si volse, porgendole il calice con fare impacciato.
— Gettalo via — disse lei.
— Gett... cosa?
La ragazza gli mimò il gesto. Ubbidiente lui scaraventò l'oggetto dritto all'insù. Lo vide scomparire.
— Va meglio? Vieni, tutti ti stanno aspettando.
Con gli occhi ancora fissi nel punto dove il calice era svanito Roan disse: — Voglio tornare a casa mia.
— Non puoi. Non finché il sogno non sarà finito.
Lui abbassò le braccia e agitò le mani, facendo in modo che i polsini ricadessero a nasconderle. — Devo tornare a casa — disse, sconsolato.
— Perché?
— È solo che io... — Con un sospiro di desiderio si girò a guardare la porta. Quando tornò a voltarsi la ragazza era sparita. E d'un tratto anelò disperatamente che fosse ancora con lui. Fece un passo avanti.
— Bau! — gridò lei, con la bocca che gli sfiorava la nuca.
Roan girò su se stesso, e la ragazza era lì. — Dov'eri?
— Ero qui... ero là! — Detto questo scomparve, e un attimo dopo si rimaterializzò alla sua destra.
— Ti prego — balbettò lui, — non farlo più. E lascia che io rifletta tranquillamente, solo un minuto.
— Va bene. — La bionda saltellò via fra le piante, raccolse un bucaneve, quindi uno strano fiore verde e purpureo, vi aggiunse alcune felci e tornò verso di lui con le dita agili che danzavano attorno ai gambi. Ripulì i fiori formando un minuscolo mazzolino tondeggiante, annodò gli steli e se lo infilò con mossa esperta fra i capelli d'oro.
— Ti piace?
— Sì. — Roan distolse lo sguardo, ma poi fu costretto a osservarla ancora. — Perché non tieni le braccia coperte? — barbugliò.
— Noi indossiamo ciò che vogliamo, qui.